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Branciforti, F.. Le rime di Bonifacio Calvo . Catania: Università di Catania. Biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia, 1955

[CdT en procés d'incorporació]

INTRODUZIONE

Chi s'accinge a leggere il canzoniere del trovatore genovese Bonifacio Calvo cerca invano un sussidio valido per inserire le rime del poeta nei lineamenti d'una personalità storicamente individuata. Venuta a mancare -se mai è esistita- la biografia provenzale, non restano di fonte occitanica che poche righe a lui dedicate nella vida del veneziano Bartolomeo Zorzi; ma le notizie in essa contenute per il loro compiacimento aneddotico forniscono più i caratteri d'una generica e vaga razo, che i riferimenti richiesti ad una sia pur elementare e succinta biografia.

In tali condizioni, se per mancanza di meglio, si volesse dare uno sguardo alla narrazione cinquecentesca del Nostredame, si ricaverebbe una prima fantastica approssimazione, che, tuttavia, attrasse e dominò l'interesse degli eruditi per ben tre secoli.

«Bonifaci Calvo -vi si legge- estoit natif de Gennes; estant jeune laissa sa cité et se retira vers le roy Ferrand qui regnoit en Castelle en l'an 1248, où il fut honnorablement receu; peu de temps apres pour son beau trouver et poetizer, li fist passer chevalier; s'enamoura de Berenguiere niepce du roy Ferrand, à l'honneur de laquelle composa plusieurs belles chansons en langue provensalle, espagnolle et tuscane, approchans de la philosophie, en laquelle il estoit grandement versé. Parmy ses chansons s'en trouve une esdites trois langues, adressante à A]phons, roy de Castelle, le persuadant de guerroyer contre le roy de Navarre, et d' Arragon, pour le recouvrement des ses terres… Sainct Cezary dict, que sortant de Gennes, il se retira à Alphons roy de Castelle et non point à Ferrand, et qu'il l'envoya par devers le comte de Provence, lequel luy fist espouser une demoyselle de Provence, de la maison des comtes de Ventimille, avec laquelle ne visquit guieres; toute la felicité de ce poëte et philosophe ne dura plus haut que d'un an, et trespassa environ le temps que dessus. A faict un traicté intitulé Dels Courals Amadours. Le Monge de Montmajour nomme ce poëte Fantasque et qu'il fut banny de Gennes pour avoir esté trop bon citadin» 1.

Arduo sarebbe cercare, in questa congerie di notizie una sicura traccia di verità, compromessa pur sempre a priori dalla disposizione accertata del biografo cinquecentista a falsare le sue fonti. Tuttavia dalla lettura del suo racconto si ricava l'impressione ch'egli abbia avuto presente una vida provenzale del nostro trovatore; anzi non è azzardato supporre che questa fonte gli sia pervenuta in una doppia redazione, come lascerebbe pensare il suo tentativo di unificarne le notizie attraverso un confronto parallelo. In ogni modo il testo del Nostredame non permette altro, se non di postulare l'ipotetica esistenza di una biografia provenzale ancora nel XVI secolo. Per il resto, il ricorso ai documenti d'archivio da una parte ed agli elementi storici del canzoniere dall'altra, in una valutazione discreta e sorvegliata, costituisce l'unico mezzo per accostarsi ad una verosimile ricostruzione della vita del poeta. Or l'una o l'altra voce conferma a grandi linee le vicende riportate dal Nostredame, dopo che esse siano state sfrondate dalle evidenti amplificazioni e dalle sovrastrutture fantastiche. Il lungo soggiorno di Bonifacio Calvo alla corte del regno di Castiglia, il suo amore per una nobile dama, forse parente dello stesso Alfonso X, la sua partecipazione -almeno come cantore- ai fatti bellici di Castiglia, Navarra ed Aragona, sono gli avvenimenti più certi che ispirarono la poesia del nostro trovatore; attorno ad essi i versi spesso velano, nella penombra di riferimenti allusivi, stati d'animo e situazioni con un riserbo geloso ed alle volte ambiguo, che certamente ebbe a sollecitare la fantasia del Nostradamus.

Purtroppo di scarso interesse si rivelano le poche notizie, che si possono attingere nei documenti d'archivio. Attraverso mal'esame di essi, si riesce solamente a sapere che il nome dei Calvo appartenne ad una nobile ed antica famiglia di Genova e che un Nicolò Calvo fu inviato nel 1251 in qualità di ambasciatore della città per concludere un trattato con Ferdinando III, poi confermato nel 1261 da Alfonso X di Castiglia 2. Certamente grande è la tentazione di apparentare in qualche modo il nostro Bonifacio con questo Nicolò Calvo, e ad essa non sa resistere lo Schultz, che pensa a quest'ultimo come al padre del poeta ed alla sua missione come all'occasione del viaggio e del soggiorno del giovane figlio in terra di Spagna 3. Ipotesi suggestiva, senza dubbio, alla quale però è negato qualunque conforto di documenti. Ma il silenzio di essi, pur in un luogo ed in un tempo così felicemente illuminati da minuziose cronache e preziose raccolte diplomatiche, è ugualmente significativo, almeno nella misura con cui esso trova ragione nei riferimenti contenuti nel canzoniere.

Il soggiorno nella penisola iberica ebbe a durare per un lungo periodo di anni, se buona parte delle rime si riferisce ad esso. Alla corte di Castiglia Bonifacio conobbe l'amore, si accese alle vicende politiche e guerresche, cercò invano una posizione elevata: qui dovette dunque passare gran parte della sua vita. Quando tornò a Genova lo respinse l'incomprensione dei concittadini e l'odio di parte. Considerando così ricco e travagliato disegno, non è del tutto naturale che gli atti di governo genovesi ignorino il nome del nostro trovatore?

Unico documento, allora, rimangono le sue canzoni: esso testimonia una biografia interna, la quale, ancorchè schiva di rivelazioni occasionali, è sempre conchiusa entro i rilievi ben individuabili di vicende «storiche». Non è perciò irriverente avvicinarsi e seguire queste vicende, se a ciò si attende con animo aperto alla poesia e soprattutto con mente vigile alla loro sostanziale relatività.

 

***

Il soggiorno del poeta in Spagna è testimoniato da un gruppo di sirventesi: V, Mout a que sovinenza;VI, En luec de verianz floritz;VII, Un nou sirventes ses tardar. La precisa datazione di essi porta un contributo sostanziale alla totale intelligenza del testo ed inquadra finalmente entro limiti storici ben chiari l'attività poetica e i sentimenti politici del nostro trovatore.

Tutti e tre i componimenti chiamano Alfonso X alle armi. I riferimenti storici più rilevanti del primo, Mout a que sovinenza, sono: 1º) il re di Castiglia vuole subito entrare in Guascogna con forze tali da rovesciare ogni resistenza (vv. 5-10), chiunque sia colui a cui ciò possa dispiacere (v. 6); 2º) egli finalmente domanda i suoi diritti con tanta forza da sottomettere ai suoi voleri i Guasconi e i Navarresi (vv. 24-28), i quali saranno catturati, sottoposti al martirio ed uccisi (vv. 29-30); 3º) il suo valore deve uguagliare quello del padre (str. V).

Non è difficile certo, a prima vista, riferire il componimento di Bonifacio all'unico episodio, che contrappose la Castiglia alla Guascogna durante questo periodo: la pretesa di Alfonso X sulla Guascogna nel 1253 e la crisi che ne seguì dei rapporti tra Castiglia ed Inghilterra, a cui fu data soluzione col matrimonio di Eleonora di Castiglia con Edoardo d'Inghilterra. I fatti, in una sommaria indicazione, sembrano chiudere il testo poetico nella sua giusta cornice ed illuminarlo adeguatamente; almeno questa è l'impressione dei commentatori, a qualcuno dei quali tuttavia non sono mancati di affacciarsi dei seri dubbi 4. Ora un esame più approfondito degli avvenimenti conduce ad una diversa valutazione e ad una più efficace interpretazione dei moventi occasionali del canto.

I diritti vantati da Alfonso X sulla Guascogna risalivano formalmente al matrimonio del 1170tra Alfonso VIII ed Eleonora, figlia di Enrico III Plantageneto, la quale aveva portato in dote la Guascogna; dal 1201 al 1208 il sovrano di Castiglia aveva cercato di rivendicare con le armi il possesso di quella provincia contro Giovanni senza Terra, ma il tentativo non aveva sortito alcun effetto pratico. In realtà le pretese castigliane nacquero dalla situazione di disordine in cui la disastrosa campagna di Poitou (Tailleborg e Saintes, 1242) aveva lasciato la regione sotto la dominazione inglese. Solo dopo un lungo periodo di anarchia l'invio di Simone di Monfort, conte di Leicester, riuscì a stabilizzare un equilibrio di forza continuamente compromesso però dalle lotte tra fazioni rivali e dalla spinta autonomistica della nobiltà. Fu appunto il vigore repressivo del conte, culminato con l'arresto del visconte Gastone VII di Béarn, a provocare un'aperta ribellione, che il suo esonero dal comando (giugno 1252) non riuscì a sedare, ma che anzi alimentò nel notevole periodo della tregua non osservata (imposta da Enrico III sino alla Pasqua dell'anno seguente) con l'intervento dichiaratamente sobillatore di Alfonso di Castiglia 5.

Quando le notizie dell'insurrezione, che aveva già investito parecchi castelli e minacciava addirittura Bordeaux, giunsero nella quaresima del 1253 a Londra, la reazione di Enrico III fu assai energica. Egli prese le prime misure, chiamando a Portsmouth i suoi vassalli ed imponendo ai sudditi un tributo straordinario; infine stabilì di salpare per il continente il 22 giugno. Rinviata la partenza per avverse condizioni atmosferiche, solo dopo l'Assunzione il re potè arrivare a Bordeaux. Qui egli s'avvide quanto la situazione si fosse fatta nel frattempo precaria: l'azione ostile contro Simone di Monfort aveva celato, con il suo conclamato ideale di giustizia contro i diritti calpestati e la violenza ingiustificata, la sua vera natura di aperta rivolta contro la dominazione inglese e di conquista d'una malcerta ma infine libera autonomia dell'aristocrazia locale. Raimond, visconte di Fronsac, Pierre, visconte di Castillon, Bernardo di Beauville, Guillaume, priore di Mas-d'Agenais, sotto la guida di un uomo abile ed ambiziosissimo, Gastone VII di Béarn, avevano preso le armi e s'erano impadroniti del castello della Réole e di Bénauge ed avevano isolato così Bordeaux dal resto della Guascogna. L'assenza del re da una parte e dall'altra l'alleanza concessa a Gastone di Béarn ed ai suoi da Alfonso di Castiglia e da costoro agitata con assoluta presunzione di imminente realizzazione politica e militare, avevano consentito i loro iniziali successi conquistati con spregiudicata e spesso crudele audacia.

Giunto sul continente, Enrico III chiamò a raccolta tutti i suoi sudditi, che gli dovevano servizio militare 6; occupò i castelli di Rions e di Saint-Macaire, per isolare Bénauge, quello dì Gironde, fortificazione sulla Garonne, quelli di Landeron e di Meilhan, non lontano dalla Réole; guarnì Cubsac, Castillon e Saint Émilion; preparò barche e macchine d'assedio a Bordeaux; mise al bando i ribelli e ne confiscò i beni; ed infine ottenne l'11 agosto da Assisi la minaccia della loro scomunica da parte di Innocenzo IV 7. I risultati della sua energica azione non si fecero attendere. Prima della fine dell'anno Bénauge cadde e la Réole fu assediata; il fronte politico dei ribelli s'incrinò con la pace separata dei conti d'Armagnac (17 e 18 sett. 1253), di Amenieu VI, signore di Albret (1 dic. 1253), dei conti di Comminges (24 marzo 1254). Infine Alfonso X di Castiglia, che aveva accolto presso di sè Gastone di Béarn ed aveva ricevuto gli agenti segreti della Réole, e all'uno ed agli altri non aveva negato sin dall'inizio la sua simpatia e il suo appoggio, dovette accettare la realtà delle cose: un'ambasciata del vescovo di Bath e di Jean Mansel nel marzo del 1254 trovò la piena adesione del monarca castigliano alle sue proposte di pace. L'accordo fu presto raggiunto e il 22 aprile Alfonso X ne annunciò i termini ai suoi alleati 8. Con esso si concluse anche il progetto di matrimonio tra la sorella di Alfonso, Eleonora, e il figlio di Enrico, Edoardo, erede al trono; la principessa spagnola portava in dote la Guascogna, il principe inglese l'Aquitania e un ricco appannaggio. In tal modo sull'altare della cattedrale di Burgos il 18 ottobre Alfonso X di Castiglia vide svanire, sia pure sotto il velo d'un compromesso giuridico e tra i fumi dell'incenso cerimoniale, uno di quei sogni fuggevoli, che sorrisero con fatuo entusiasmo ai suoi primi anni di regno 9.

Questi i fatti di Guascogna. La loro rievocazione circostanziata inquadra il componimento di Bonifacio in una precisa cornice storica, dove ogni riferimento trova puntuale rispondenza negli avvenimenti. I limiti cronologici, entro i quali si deve porre il sirventese, sono ben chiari: l'accenno ai navarresi (v. 27), chiamati in causa insieme con i guasconi, riporta alla crisi dei rapporti tra Castiglia e Navarra, determinata, come meglio si vedrà in seguito, dalla morte di Teobaldo IV avvenuta l'8 luglio del 1253. Questo termine post quem è assolutamente determinante per l'interpretazione del nostro testo e da esso, come di un dato certo, non si può prescindere. D'altra parte, l'arrivo di Enrico III sul continente, avvenuto il 24 agosto seguente, tolse veramente ad Alfonso X ogni effettiva possibilità di intervento negli affari della Guascogna. In questo periodo deve cadere con ogni probabilità il canto di Bonifacio. E se si vuole ancora per poco limitare in termini più brevi la stesura di esso, un altro indizio è significativo: nessun accenno compare nei versi di questo componimento, che si riferisca all'Aragona. Ora, poichè laNavarra ricorse alla protezione di Giacomo I d'Aragona col suo primo trattato del 1 agosto 1253 (si veda poco appresso), si può forse presumere che la poesia di Bonifacio Calvo preceda di qualche tempo questa alleanza. Si tratta oramai di giorni, dalla morte di Teobaldo (8 luglio) al trattato Navarra-Aragona (1 agosto): nessuna più precisa determinazione può essere data ai versi del poeta, i quali hanno veramente nell'ambiente storico sopra delineato la loro più compiuta spiegazione.

Si esaminino alcuni passi del testo alla luce dei fatti narrati. Nella prima strofe il poeta dice:

vv. 1-10 Mout a que sovinenza
non agui de chantar;
mas ar me·n sove, car
aug sai dir e coindar
que·l nostre reis breumenz,
cui que pes ni·s n'azir,
vol en Guascoign'intrar
ab tal poder de genz
que murs ni bastimenz
non o posca suffrir. 10

 

I primi versi, che sottolineano il netto distacco tra i canti d'amore e quelli politici, aprono una nuova pagina nel canzoniere calviano : nella trilogia delle canzoni storiche il nostro componimento occupa distintamente il primo posto. Con esso s'inaugura una breve parentesi, sostanziata dall'attività politica irruente e sconsiderata di Alfonso al principio del suo regno. Indizio considerevole, anzi determinante, allorquando si congiunge col tono dell'ultima stanza e delle due tornade: 

vv. 41-58 Si que de sa valenza
fassa·ls meillors parlar;
e pe·l paire senblar
si deu mout esforçar,
car fon plus avinenz
e mais saup conquerir
e mais si fetz honrar,
que reis qu'anc fos vivenz;
car, si no·l senbl'o·l venz,
pro hi auran que dir.
 
Mas res no·m fai doptar
qu'el no·l vencha breumenz,
tant es granz sos talenz
de son pretz enantir.
 
Reis castellanz, pueis ar
no·us faill poders ni senz
e Dieus vos es consenz,
pensatz del conquerir. 11

 

Da questi versi si ricava veramente l'impressione che il giovane re sia da poco succeduto al padre. Ancora trentenne, preceduto dalla fama di valoroso guerriero e di principe brillante, Alfonso X ben poteva ispirare questi versi a Bonifacio ad un anno appena dalla sua ascesa al trono. Era naturale che il poeta contrapponesse al figlio l'immagine ancora viva del padre, perchè dal confronto ne venisse al monarca incitamento alla lotta ed alla conquista. Poco dopo, come si sa, le sue parole avrebbero assunto il significato d'un nostalgico ricordo, o, peggio, d'un ironico rimprovero.

Ma, per tornare alla prima strofe, è da sottolineare il risalto dato dal poeta ad una circostanza: l'azione del re è tutta circoscritta in quel breumenz, «subito», che indica una decisione improvvisa, nata appunto da una imprevista situazione; ma l'avverbio sembra dire anche, nel contesto, che l'attacco sia violento e di breve durata (cfr. strofe IV). Indizi, ambedue, che ben s'adattano al momento storico. Fin dal 1252 maturava la ribellione di Gastone di Béarn e dei suoi amici contro la corona inglese; nell'aprile del '53 Alfonso accolse il ribelle alla sua corte e gli promise il suo aperto intervento, quando ormai tutta la Guascogna s'era sottratta al dominio legittimo e i pochi fedeli erano stretti d'assedio nella stessa Bordeaux. Il preannunciato intervento di Enrico III tardava e ciò dava adito alla speranza di un suo gesto rinunciatario. Contemporaneamente veniva a morte Teobaldo di Navarra, lasciando il suo regno nelle deboli mani della reggente del figliolo ancora bambino. Alla corte di Alfonso, e certamente anche nel suo stesso animo, dovette balenare il sogno che un unico colpo di mano, audacemente e spregiudicatamente condotto, avrebbe assicurato alla Castiglia sia la Guascogna, come la Navarra.

I versi del poeta ne sono testimonianza: 

vv. 21-30 Per que chantan m'agenza
sa grant valor sonar,
c'ar comenz senz tardar
de sos dreitz demandar
tant afortidamenz,
que senz tot contradir
li Guascon e·ill Navar
fasson sos mandamenz
e los liur'a turmenz
ab prendr'e ab aucir. 12

 

Al breumenz del v. 5 fa riscontro con perfetta rispondenza il senz tardar del v. 23; ma qui ben altro peso acquista il rilievo, risaltato com'è da ar e da afortidamenz: due avverbi, anche qui, che indicano due condizioni storiche, in quanto riflettono l'azione del re in Guascogna trascinatasi da un anno (1252, richiamo di Simone di Monfort) con una lentezza debole ed indecisa,

vv. 18-20 ...per que tost comenz
lo francs reis e valenz
ab ferm cor de complir. 13

 

e la fortunata coincidenza con la crisi interna navarrese. Una convergenza di fattori politici favorevoli eccezionale e di brevissima durata, poichè lo sbarco di Enrico III sul continente e l'alleanza della Navarra con l'Aragona negherà per sempre ogni pratica attuazione al piano temerario di Alfonso.

Nè l'allusione del v. 6, cui que pes ni·s n'azir, rimane del tutto oscura, quando si può identificarvi il re d'Inghilterra, che aveva generosamente ascoltato le richieste dei sudditi guasconi, aveva concesso la tregua, ed aveva preannunciato il suo arrivo pacificatore. La cautela, del trovatore è anch'essa significativa, se si pensa che solo il non intervento di Edoardo poteva assicurare il successo del disegno di Alfonso di Castiglia.

In questo crogiuolo di speranze ed illusioni, di entusiasmi e delusioni, il canto del poeta ha una sua propria fisionomia. E che il fondo d'ispirazione del componimento si debba cercare -e ciò è ovvia- in una particolare situazione psicologica, mostra appunto il tono energico e rotto dei due versi

vv. 29-30 e los liur'a turmenz
ab prendr'e ab aucir. 14

i quali preludono alla fosca e sanguigna rappresentazione successiva:

vv. 31-40. Veiranlo senz bistenza
dreg vas els cavalgar
ab tal esfors que·l par
non puesc'en champ trobar,
e lai tant bravamenz
conbatr'e envazir
murs, tors e peceiar,
ardr'e fondr'eissamenz,
que·ls fass'obedienz
a sa merce venir. 15
 

Vi è indubbiamente il clima dell'esaltazione guerresca, della violenza scatenata 16, quale soltanto la fugacità del felice momento politico poteva alimentare per la sua subitaneità e la tragica esperienza e il pressante appello di Gastone di Béarn doveva sollecitare.

Così gli elementi storici si compongono ad unità in una visione precisa e tuttavia dinamica degli avvenimenti. I limiti cronologici del componimento non possono essere che, molto ristretti: teoricamente dall'8 luglio 1253 (morte di Teobaldo IV di Navarra) al 24 agosto successivo (sbarco di Enrico III); maverosimilmente il canto precede il patto d'alleanza tra Navarra ed Aragona del 1 agosto 1253. La tenace identità della rievocazione poetica e degli eventi storici è dunque quanto mai feconda.

Il terzo sirventese, Un nou sirventes ses tardar, si ricollega direttamente al primo. Il poeta infatti rimprovera Alfonso, perchè non pare che abbia volontà di combattere il re di Navarra e il re d'Aragona (vv. 4-5), se non con le minacce solamente (vv. 9-10). Lo sprona invece a mettere nell'impresa «senno epensiero, corpo e cuore, avere ed amici» (vv. 13-14); egli dice che già ha udito raccontare che i due re si trovano insieme in campo (vv. 19-21) ed ivi può perciò incontrarli ed affrontarli; e lo esorta a far vedere ai due sovrani nemici, en la terra de la, il suo accampamento e il suo vessillo (vv. 23-26).

Le numerose allusioni storiche del testo corrispondono ad avvenimenti contemporanei, cui certamente Bonifacio fu testimone. Il componimento si riferisce ad un episodio dei primi anni del regno di Alfonso X: e precisamente al suo progetto di impadronirsi del regno di Navarra, in seguito alla morte di Teobaldo IV. La vicenda, quanto mai ricca di movimento, non lascia facilmente adito ad un puntuale inquadramento del sirventese, tale da assicurare una datazione assolutamente certa di esso: prova ne sia che i vari tentativi, condotti in verità con debole informazione storica, perseguono dei risultati scarsamente approssimativi.

Secondo il Milá il canto deve cadere tra la morte del re di Navarra (luglio 1253) e la pace raggiunta dai tre contendenti, Navarra, Castiglia ed Aragona, ai primi del 1254 17; per lo Schultz, invece, quest'ultimo termine può essere anche superato, perchè il poeta rimprovera Alfonso di non voler seriamente guerreggiare 18. Il Pelaez, infine, condivide senza nuovi argomenti l'interpretazione del critico spagnolo: «E siccome Teobaldo morì nel luglio del 1253, e la pace fra Navarra e Castiglia fu fatta proprio nel principio del 1254, così la composizione della poesia può assegnarsi agli ultimi mesi del 1253». 19

Questa determinazione, sia pure così precisa, abbandona nell'ombra alcune allusioni contenute nel testo, che notizie più particolari degli avvenimenti spiegano invece con notevole aderenza.

La morte di Ferdinando III il Santo portò sul trono di Castiglia il figlio Alfonso. Uomo dall'ingegno multiforme, egli ebbe nell'azione politica un'ambizione sfrenata, mai sostenuta dalle reali condizioni di potenza del suo regno: fu perciò un cammino pieno di repentine impennate e di strategiche ritirate, dalle pretese sull'Algarve 20, sulla Guascona e sulla Navarra sino alla sua candidatura all'impero. Ad uno di questi episodi si riferisce il sirventese di Bonifacio Calvo.

Il re di Navarra, Teobaldo IV, morì l'8 luglio 1253, lasciando alla moglie Margherita di Borbone e al figlio Teobaldo ancora fanciullo il grave peso del regno. La casa di Castiglia avanzava sulla Navarra antichi diritti, ai quali però già Ferdinando III aveva praticamente abdicato, concludendo il 15 luglio 1250 una tregua di due anni col re di Navarra 21. Ad aggravare la situazione del giovane re e le preoccupazioni della reggente contribuiva la torbida fedeltà dei sudditi navarresi anelanti a più libere istituzioni. In tali frangenti Margherita seguì il consiglio del defunto marito, che nel suo ultimo atto aveva raccomandato la tutela del regno all'amicizia di Giacomo I d'Aragona 22; e, nell' annunziare a quest'ultimo la morte e la decisione del marito, propose la conclusione d'un patto d'alleanza. Giacomo accolse l'invito di buon grado, spinto dall'interesse di garantire l'equilibrio politico nella penisola e forse anche dal risentimento contro ilgenero Alfonso diCastiglia per ragioni familiari 23.

Inviò dunque, il 1º agosto 1253, l'infante Don Alfonso a Tudela per firmare l'accordo con Margherita di Navarra, secondo il quale si assunse la difesa del regno di Navarra da qualsiasi attacco esterno 24. Pochi mesi dopo, il 27 novembre 1253, il giovanissimo re appena quindicenne, Tibaldo V di Navarra, veniva elevato al trono, dopo aver concesso ai sudditi importanti privilegi 25. La notizia dell'avvenuta alleanza provocò l'irrigidimento di Alfonso di Castiglia nella sua condotta per una soluzione di forza e grandi preparativi di guerra rafforzarono le frontiere dei tre stati durante l'inverno e la primavera del 1254. Ancora il 9 aprile di quest'anno s'incontrarono a Monteagudo Tibaldo di Navarra e Giacomo d'Aragona e riconfermarono il patto stipulato l'anno precedente e lo rafforzarono con un progetto di matrimonio tra ilgiovane re di Navarra e Costanza, figlia di Giacomo; in caso di morte sarebbero stati sostituiti, il primo, dal più grande dei suoi fratelli, laseconda dalla sorella Sancha. Il Papa, Innocenzo IV, concesse inoltre la sua alta protezione ai due sovrani 26.

La guerra fu veramente sul punto di scatenarsi, essendo deciso il re di Castiglia a mantenere le sue rivendicazioni poichè a nessun costo: « ...sive pacem, seu treguam cum Rege Navarrae fecerimus, quod remaneat sibi, et successoribus suis Castra, Villae et terrae, quas Reges Navarrae per violentiam occupaverunt, et sibi et suis progenitoribus abstulerunt»; in questi termini infatti egli scriveva il 22 aprile del 1254 da Toledo ad Enrico III d'Inghilterra 27. Ma la mediazione di alti prelati e di nobili signori ebbe ragione della volontà del re di Castiglia, il quale, in verità, se si mostrò ben deciso a levare armati e a minacciare da un momento all'altro un grande attacco, non fece seguire con uguale violenza l'azione ai propositi : pur tra i rumori di guerra, una tregua fu sottoscritta fino alla festa di San Michele, cioè sino al 29 settembre dello stesso anno.

Con consumata abilità Giacomo d'Aragona proseguì la sua azione politica al fine di assicurarsi nuove alleanze. Si procurò in tal modo l'amicizia di Alvaro Perez da Azagra, signore d'Albarracin; e sotto le sue bandiere raccolse financo Diego Lopez de Haro, signore di Biscaglia con Ramiro Rodriguez e Ramiro Diez, una volta sudditi di Alfonso X ed ora suoi nemici per ragioni d'interesse 28; infine un nuovo incontro con Tibaldo di Navarra nell'agosto ad Estella gli permise di solidificare il fronte unico da lui creato in vista della scadenza della tregua. Quando essa sopraggiunse, le tre armate si trovarono schierate rispettivamente intorno a Tarazona (Aragona), a Tudela (Navarra), a Calahorra ed Alfaro (Castiglia) 29; e dalla distanza minima di due miglia i due nemici si guardarono a lungo con grande fragore di armi ed alti gridi di guerra, ma con poca convinzione di venire veramente alla rottura. A salvare la pace fu un poeta: il catalano Bernart Vidal de Besalu 30.Egli era alla corte d'Aragona molto onorato e la sua iniziativa sortì buon effetto, malgrado le gravi difficoltà che si contrapponevano più per ragione di prestigio e di puntiglio, che per reali contrasti d'interessi 31.

Comunque l'avvicinamento tra genero e suocero ebbe luogo per merito suo e la tregua fu rinnovata col riconoscimento dell'assistenza e della custodia di Giacomo d'Aragona alla Navarra durante la minorità di Tibaldo V.

La guerra non guerreggiata tuttavia continuò, soprattutto con la vivace attività politica del re d'Aragona, la quale culminò nell'incontro di Estella del 6 settembre del 1255: erano presenti, infatti, oltre ai due re alleati, Enrico di Castiglia, che si era ribellato all'autorità del fratello Alfonso, e Lope Diez de Haro, signore di Biscaglia, che ribadiva il giuramento prestato un anno prima dal padre. Ora più che mai apparve la necessità di uscire da una situazione paradossale e le trattative, già da lungo tempo avviate, condussero finalmente alla pace di Soria nel marzo del 1256, riconfermata poi nell'agosto dell'anno seguente: in definitiva Alfonso X, pur con generiche e platoniche garanzie, rinunciò per sempre alla conquista del regno di Navarra 32.

Nel denso quadro degli avvenimenti rievocati, il componimento VII di Bonifacio Calvo deve inserirsi con unitaria continuità, sia pure conservando una propria autonomia, che gli deriva dall'essere opera poetica. Gli elementi storici del sirventese, che si lasciano cogliere con più evidenza, sono: 1) la indecisione di Alfonso a combattere veramente ilre di Navarra e il re d'Aragona (vv. 4-5); 2) la notizia, raccolta dal poeta, dello incontro personale dei due re in campo (vv. 19-21); 3) l'esortazione di oltrepassare con l'esercito la frontiera (vv. 22-26).

Orbene, se la prima allusione del testo consente di determinare il fatto generale (chè mai più si verificherà una simile congiuntura nel lungo regno del re castigliano), il secondo elemento è il più indicativo per un orientamento cronologico preciso. Come s'è visto, gli incontri dei due re alleati furono quattro: 1º agosto 1253 a Tudela; 9 aprile 1254 a Monteagudo; agosto 1254 a Estella; 6 settembre 1255 ad Estella. A quale di essi allude il trovatore? Il primo, a rigore, è da escludere, poichè ad esso parteciparono Margherita di Borbone, reggente in nome del figlio Tibaldo non ancora incoronato (lo sarà solo il 27 novembre), e Alfonso d'Aragona, in nome del padre: nessun re, dunque, almeno formalmente. Si aggiunga inoltre che la morte del re-poeta, Tibaldo IV di Navarra, era avvenuta troppo recentemente, l'8 luglio, appena venti giorni prima, per risvegliare ed agitare le pretese di Alfonso X. Anche l'ultimo incontro ricordato, a Estella il 6 settembre 1255, è improbabile che si possa indentificare con quello, cui allude ilpoeta: ad esso intervenne nientemeno che lo stesso fratello di Alfonso, Enrico di Castiglia, iltradimento del quale suscitò un vivissimo allarme alla corte castigliana 33.  Bonifacio, che nominando Giacomo d'Aragona non tace ilso sozer (v. 26), non avrebbe certamente passato sotto silenzio un avvenimento tanto importante. Un passo può indicare forse la via più certa. Il poeta dice ai vv. 19-21: que j'ai por voir comter - que il puet tost au champ trover - les doi rois, se talent en a; «ha udito raccontare...»  perciò, e molto probabilmente non quando gli eserciti si trovarono a mezza lega l'uno dall'altro e gli uomini d'entrambe le parti si parlavano agevolmente, come avveniva (s'è già visto) non solo durante la crisi del settembre del 1255, ma anche in quella d'agosto del 1254. La cronaca di Bernat Desclot è significativa per questo.

Rimane, in ultima analisi, l'incontro di Monteagudo del 9 aprile 1254, come la più probabile occasione d'ispirazione del canto. Nel clima di questa vigilia il «tono» dei versi del Calvo ha un'armonica rispondenza: è l'attesa di Alfonso, piena di speranze e d'illusioni, per la resa a discrezione di Margherita, intimorita dalle sue minacce gridate ai quattro venti. La notizia dell'incontro dei due re, cioè del definitivo intervento di Giacomo d'Aragona, condannò al fallimento l'originario piano di Alfonso di Castiglia e lo costrinse a preparare una vera e propria azione di guerra. In questo momento di dubbio, quando il desiderio e l'ardore del poeta sopravvanzava ed anticipava la reale disposizione di Alfonso, quando ancora certa e non certa era la definitiva alleanza dei due nemici, quando infine un atto di forza (str. IV) poteva sbaragliare l'avversario, allora si levò l'esortazione di Bonifacio. Appena qualche mese dopo, le trattative di tregua segnavano una direzione diversa dell'iniziativa castigliana.

Ai due sirventesi illustrati si suole accostare un altro componimento: VI, En luec de verianz floritz. Anch'esso è dedicato ad Alfonso X di Castiglia ed esorta il re alla guerra. Nessuna indicazione, anche approssimativa, permette di riferire ad un preciso avvenimento i versi di Bonifacio. In tali condizioni soltanto qualche ipotesi si può avanzare, che raccolga insieme con una certa probabilità di chiarificazione gli scarsi indizi che vi affiorano. La strofe, da questo punto più significativa (nei limiti già fissati), è la quarta : 

VI, 25-32 Mas trop mi par endurmitz,
     que·m desplatz,
car en vei desconortatz
los sieus e meins coraios;
e s'ara, mentr'es noveus
l'afars, non conorta·ls sieus,
venir l'en pot tals mescaps e tals danz
qu'el fara pron, si·l restaur'en des anz. 34

 

Se il componimento, come sembra del tutto verosimile, si deve riferire ai tentativi espansionistici di questi primi anni di regno di Alfonso il Savio, una datazione di esso si può indicare con una certa approssimazione. Infatti, tra i numerosi episodi ricordati, un fatto particolare risponde alle esigenze del testo: l'aperto appoggio dato dal re di Castiglia alla ribellione di Gastone VII di Béarn contro la dominazione inglese. Soltanto in quelle circostanze Alfonso potè contare su potenti amici nello stesso campo avversario (vedi los sieus dei vv. 28 e 30), i quali avevano prevenuto con le armi le sue richieste sulla Guascogna ed ai quali -s'è già visto- egli fu largo di promesse e favori, ma avaro di concreti aiuti militari. L'ipotesi prospettata assegna al canto un periodo di composizione relativamente preciso: gli alleati di Alfonso sono desconortatz e meins coraios e ciò s'avverò con l'intervento diretto di Enrico III negli affari di Guascogna. Egli sbarcò sul continente nell'agosto del '53 e ristabilì prontamente la situazione gravemente compromessa: prima della fine dell'anno Bénauge cadde e la Réole fu assediata, mentre i suoi ambasciatori invocavano, insieme col visconte di Béarn, l'intervento armato del re castigliano. Tra le altre voci, che in quel momento si levavano attorno al monarca indeciso, probabilmente fu questa di Bonifacio Calvo tra le più violente. Ma prevalsero quelle più caute e sensate di autorevoli consiglieri politici; pochi mesi dopo, nel marzo del 1254, le trattative di pace chiusero la dolorosa esperienza: il componimento andrebbe dunque riferito alla fine del 1253.

L'esame specifico degli elementi storici di questo gruppo di sirventesi delinea un quadro vivo e movimentato dell'attività del nostro trovatore in Spagna. Sebbene essa sia limitata ad un triennio circa, il suo valore supera certamente gli stretti dati cronologici e lascia agevolmente intravedere una realtà ben più vasta e più ricca 35. A questa integrazione umana della personalità di Bonifacio concorrono altre condizioni, che il suo canzoniere adombra spesso con accorta discrezione: la nostra curiosità, quindi, ne esce alquanto mortificata.

 

***

Per questo fine è necessario -sia pure d'una necessità marginale- cercare di chiarire i lineamenti storici della figura femminile, che, come una trama di fondo, lega tutto il canzoniere calviano in una stretta unità d'ispirazione.

Le notizie del Nostradamus sono confuse e contraddittorie: per prima ci parla di una Beringhiera nipote di Ferdinando III, poi di una fanciulla della casa di Ventimiglia, che secondo un'altra fonte, Uc di Saint Circ, sarebbe stata, sia pure per il breve periodo di un anno, la compagna felice di Bonifacio.

Dalle righe del fantasioso biografo trassero profitto quasi tutti gli studiosi successivi, i quali s'accostarono alle poesie del nostro poeta con l'imprevidenza dispersiva tipica di chi osserva un gruppo di frammenti; perciò rimase chiusa ad essi la visione integrale dei vari motivi, che danno un significato umano e poetico alle rime del Calvo. Ora, al contrario, il volto della donna, da lui cantata, esaltata e pianta, è sempre unico e fermo, sia pur vivo di diverse movenze 36: a tale vita -che è l'unica vera ed importante- sono dedicate le pagine seguenti. Per il momento sia lecito raccogliere qualche indizio esteriore della sua personalità.

Nella canzone IV il poeta dice:

 

vv. 1-6 Tant auta dompna·m fai amar
Amors e qu'es tan bell'e pros,
que sol deingnes de dezirar
s'amor non sui; ni voi razos,
-tant sobreval!- que·il plaia qu'eu
l'am ges, ni que m'autrei per sieu. 37

 

Il significato di questi versi potrebbe senz'altro inserirsi nel clima dell'amore cortese e spiegare così agevolmente la sua funzione di «lode» della donna amata. Tuttavia, se legittima si presenta a prima vista una tale interpretazione (per quanto contrastata da quell'auta iniziale separato da bell'e pros),essa diviene precaria ed insufficiente, quando a questo passo se ne accosti qualche altro d'identico tono ispirativo:

 

II, vv. 25-32 Per qu'eu de ren als no·m pes,
mas de far vostre plazer,
e prec vos c'al chaptener
voillatz gardar e non ges
al parage, car temenza
mi fai zo, que·us me·n sobratz;
on plus fort mi conortatz
ab la vostr'umil parvenza. 38
 
Sia pure di breve respiro, si può cogliere ancora qualche altra espressione significativa:
II, 39-40
car ai mes, al meu parer,
en trop haut luec m'entendenza. 39
 
IX, 76-78 que tan granmen
no·m puesc' honrar
con taingn'al mieu aut entendre. 40

 

Da questi accostamenti, ai quali s'è voluto dare un limite di scelta ben stretto e discriminato, si può trarre con notevole verosimiglianza di verità una conclusione: la donna amata da Bonifacio Calvo è di nobili natali, anzi, essa supera di molto l'origine «borghese» del trovatore.

Con eguale cautela si può fare un altro passo avanti. In un canto d'incitamento ad un'impresa guerresca, dedicato interamente ad Alfonso X e contro i suoi pusillanimi consiglieri, il poeta così conclude:

 

VI, vv. 41-44 Vai dir, sirventes noveus,
celleis, cui sui miels que mieus,
que·l bes, que·m fai, es a totz los prezanz
enantimenz e als crois desenanz. 41

 

Questo è il primo accenno,il più generico, che lega in qualche modo la donna amata dal trovatore al nome ed alla persona del suo signore. Ma le loro relazioni s'infittiscono notevolmente, acquistando una consistenza sempre più considerevole. In un canto d'amore infatti, dove Bonifacio dichiara il suo sentimento alla donna tanto auta (v. 1) ed esprime il suo timore di offenderla per questo, nella tornada dice:

 

IV, vv. 33-40 Car val mais c'om non pot pensar
lo reis de Castella n'Anfos,
sui seus, car sa valors m'enpar,
s'er qui trop senbla orgoillos;
e si·l plai que·m puege ni·m leu,
non voill aillors querre manleu,
c'ab sa valor dir auzarai
daus on mi ve l'affanz qu'eu ai. 42

 

Il poeta chiede, dunque, che la protezione di Alfonso lo innalzi tanto, da consentirgli di esprimere alla sua donna l'affanno e il tormento d'amore che per lei soffre. E' riconfermata qui l'alta posizione di lei; ma soprattutto può essere significativo il tono della richiesta, la quale, inserita in «quel» canto d'amore, si distingue dal solito motivo tradizionale per attingere un impegno più specifico. Il poeta non chiede il dono elargito al cortigiano; invoca piuttosto che la simpatia del signore gli faccia osare di dichiarare il suo amore. Or è questa partecipazione che si vuol mettere in rilievo, come un indizio valido per dare un senso più compiuto agli altri motivi, certamente meno esteriori, del canzoniere calviano. Fu dunque una donna vicina ad Alfonso X o forse della sua stessa famiglia quella amata e cantata dal poeta? Possono le fonti, a cui attinse il Nostredame, aver conservato la debole voce d'una tradizione veritiera, attribuendo a quel volto sconosciuto un nome, Beringhiera, e una regale consanguineità? Sarebbe impossibile affermarlo recisamente. Non si può tuttavia nascondere che, pur rinunciando ad una più precisa identificazione storica del tutto ipotetica e praticamente sterile 43, la persona amata dal Calvo, così vicina e legata ad Alfonso X come appare dai versi riportati, è veramente il motivo dominante che dà vita e significato al canzoniere d'amore del trovatore.

Ma la nostra curiosità può avere ancora qualche altra piecola soddisfazione. Il celebre discordo di Bonifacio è un canto d'amore inviato alla donna lontana:

 

IX, vv. 37-55 Mas non l' es vis
qe·il si'aclis
con sueil, car ieu non repaire
   vas son pais
   con li promis:
e per so·m liur'ab maltraire
on plus li sui fiz amaire.
 
Ja de si no m'an
   lueinhan
   si trebailan
mi vauc ar sai en Espaignha
   com m'enpeinh'enan,
     puian
   ma valor tan
que sos valenz pretz no·s fraingnha,
   ni·s dechaia, can
     senblan
   petit ni gran
fassa, que vas mi s'afraingna. 44

 

Un giorno perciò essa s'allontanò dalla Spagna. A nessuno può sfuggire il senso di quel vas son pais, una terra che doveva essere «sua» in origine o che era divenuta «sua», perchè ne aveva acquistato la signoria per matrimonio. Gli ultimi versi del passo citato, nel ribadire l'unica identità della donna quale s'è cercato di ricostruire, costituiscono una interessante testimonianza delle vicende della vita del nostro poeta in Spagna.

S 'è già detto: egli cercò la fortuna e non la trovò, a causa probabilmente delle maldicenze degli invidiosi per la sua ammirazione verso la donna altolocata. Anche in questo caso, però, la persona del protettore, è chiamata ad una diretta partecipazione:

 

XIII, vv. 33-40 Tant mi fai ma dompn'amar
Amors, que·n sui fols jutgatz,
que, can deuria poingnar
el rei deservir, li fatz
plazer; e non me·n tueil ges,
car sai qu'il me·n degra rendre
bon guierdon, si·l plagues
a dreg sa merce despendre. 45

 

Nei versi precedenti Bonifacio rimprovera il re d'aver dato ascolto alla voce interessata dei suoi amici e di non saper ricompensare secondo il merito di ciascuno (vv. 25- 32). In quest'ultima strofe e gli riconferma la fedeltà a lui devotamente offerta in nome e per forza dell'amore per la sua donna. Ancora una volta, dunque, la trama biografica del poeta congiunge in un'unica vicenda il volto sconosciuto della donna e il gesto signorile di Alfonso.

Ma il soggiorno alla corte di Toledo dovette divenire ad un punto intollerabile. Allontanatasi la donna, umiliato nelle sue speranze, il poeta pensò di recarsi presso un altro signore, Ardit, dove forse lo avrebbe accolto una più onesta e liberale benevolenza:

 

XV, 43-48 Car no·ill plai genz vils, ni·l fai ubrir porta
ni·l agrad'om savais, ni de sen blos,
ni rics cobes, voill esser per lui sors
e fors del greu destric, que desconorta
mos benevolenz, o metr'a nonchaler
tot zo que·m pot a cobrar pro tener. 46

 

Attese per questo il permesso della donna amata: XV, 35-37... sol m'o autrei -cil, cui soplei - e qu'eu azor..,;tuttavia la rottura delle sue relazioni con Alfonso X non poteva essere più decisa e sdegnosa. La chiara allusione al re contenuta nella tornada della canzone XV riassume e compendia tutto il doloroso risentimento del poeta e ribadisce la sua decisione:

 

XV, 71-78    Qui que soplei
   fort, ni s'autrei
   a gran seingnor
   vueg de valor,
   per nuil mestier
   non l'am, ni·l quier,
car cel, cui fail tot zo que mais mi platz
no·m pogra dar fieu, don ie·n fos pagatz. 47

 

Breve fu l'illusione d'un migliore destino, se la morte di colei che amava privò Bonifacio d'ogni volontà di vivere. Egli probabilmente non s'era mosso dalla Spagna: XVI, 1 e sg., S'ieu ai perdut, no se·n podon iauzir -mei enemic, ni hom que be no·m vueilla... Presente ed attuale è ancora la fatica e, direi, la stanchezza della lotta; ma su tutto il componimento grava la riluttanza, l'abbandono d'una vita divenuta senza significato.

Fu questo l'ultimo avvenimento a spingere il trovatore a tornare in patria? A pensarlo non si andrebbe probabilmente lontano dal vero, se si volesse dare un senso ad alcune zone di silenzio e al tono di certe pause delle sue rime.

 

***

Il tempo e le circostanze del ritorno in patria di Bonifacio rimangono per noi oscure. Del suo soggiorno a Genova parlano soltanto itesti poetici: due tenzoni di casistica amorosa, una tenzone politica. Poco o nulla si può ricavare dalle prime; al contrario dall'ultima tutto un, vivissimo panorama si apre su una pagina di storia genovese e sulla personalità politica delCalvo. E mentre per l'una la voce dei cronisti intreccia con splendida consonanza un prezioso contrappunto con i versi del poeta, per l'altra il silenzio dei documenti dà uno sfondo significativo ai suoi amari sdegnosi rimproveri.

Mentre la guerra con Venezia si conduceva tra piccoli scontri e gravi sconfitte, un fortunato colpo di mano condusse prigioniero a Genova un poeta della laguna: Bartolomeo Zorzi. Avrà sentito il nostro trovatore il suo nome ricorrente sulla bocca dei concittadini in festa, e lanciò il suo sirventese; dal fondo del carcere si levò a contrasto un canto della medesima fattura, di più acre violenza, forse, per il peso delle catene, cui era costretto l'autore.

Le uniche notizie biografiche di fonte provenzale, che ci siano pervenute su Bonifacio Calvo, sono contenute precisamente nella biografia dello Zorzi e si riferiscono a questo episodio. Ecco cosa racconta l'anonimo biografo circa le relazioni tra i due poeti: nella vida I: Bertolomeus Gorgis si fo us gentils hom, mercadiers de Venecia. E fo bons trobaires. Et avenc se que, qand el anava, -ab moutz d'autres mercadiers q'erant d'aqella ciutat q'ieu vos ai dicha,- de Venecia en Romania, el e tuich li autre mercadier q'eron ab luisus en la nau foron pres una nuoich da Genoes; car adoncs avion mout gran guerra Venecian ab Genoes. E foron tuich li homen d'aqella nauq'ieu·s ai dicha menat en preison a Genova. Et estan en preison, etel fetz moutas bonas canssos, e moutas tensos fetz atressi ab en Bonifaci Calvo de Genoa. Et en devenc se que fon faita patz d'entre Venecians e Genoes, e·n Bertolomieus Gorgis e tuich liautre issiron de preison. Nella vida II: ...Et estagan la en prison, en Bonifaci Calbo sifetz aquest sirventes qu'es escrit ça desus, qui comensa Ges no m'es greu, s'ieu non sui ren prezatz, blasman los Genoes, car il se lasavon sobrar de Venesians, digan gran vilania d'els. De que·n Bertolome Çorgi fetz un autre sirventes, qui est escritz qa desotz, loqual comensa Molt me sui fort d'un chant meraveillatz, escusan los Venesians et encolpan los Genoes. De que en Bonifaci Calbo se tenc encolpatz de so qu'el avia·n ditz; e per so si se torneron l'un a l'autre e foron granz amis. Longa sason estet en Bertholome Çorgi en prison, entor set an... 48

Dovute ad una o a due mani diverse, le due redazioni della vida di Bantolomeo Zorzi interpretano l'ambiente storico dei testi poetici con gli elementi d'una tradizione quanto mai lacunosa ed approssimativa. 49Per una precisa valutazione dei termini del racconto bisogna ricorrere alla testimonianza dei cronisti, i quali illuminano di vivissima luce le circostanze particolari, cui i due testi poetici alludono con molteplici richiami. S'incominci con la storia della cattura del mercante-poeta veneziano, secondo la narrazione del suo concittadino Martino Da Canale: «Mesire Pasquet Malons, un gentilome de Iene, estoit en mer, et avoit III galies et une vaquete; et avoit cerche la mer que de Surie que de Romanie, por doner aucun domaie as Veneciens. Onques de tant con il avoit cerche, il n'avoit fait nul guaain. Mes un ior avint, que il estoit repost en un port que l'en apele les Dragonaires; et il garda en mi la mer, et vit une nef mult eslongniee des autres, et se prist mult bien garde come ele estoit, et fist espier quel garde il fesoient. Et lors quant vint a l'eniorner, si asailli la nef, et monta de sus et la pristrent; et ce lor avint por mauvaisse garde, et que il n'estoient armes, et que au venir des galies il cuidoient que il fussent Veneciens. Saches, signors, que cele nef avoit a nom Saint Nicolas. Si estoit remese loins des autres por ce qu'ele voloit aler a Nigrepont; et estoit dedens maint gentis homes de Venise, et maint prudomes dou peuple: mes ensi furent pris par mescheance. Que vos diroie ie? Mesire Pasquet Malons les fist enprisoner selonc la coustume de guerre. Mult guaaigna a celui point; que cele nef estoit chariee de beles merchandies et de riches. Si conduist la nef et li homes a Iene, et la Poestes les fist metre en prison. Et Mesire Marc Gen, li noble Chevetein, de tot ce ne sot rien. Si tint sa droite voie, et conduist la carevane la droitement ou Monsignor li Dus li avoit comandes; et puis s'en retorna a Venise, a tote sa compagnie, a sauvetes» 50. Il nostro poeta dirà, riferendosi chiaramente alla cattura, vos an il tout tant que·n vivetz dolen (v. 44), «essi (i genovesi) vi hanno tolto tanto, che ne vivete dolenti» .

I centotto prigionieri veneziani, presi all'alba d'un giorno di ottobre del 1266 nella nave carica di mercanzie 51, languirono a lungo nelle carceri genovesi. Quando infatti la tregua sopravvenne, essi rimasero nelle mani dei vincitori; di loro parla ancora il cronista veneziano: «En Iene remestrent en prison Veneciens que Ienoes pristrent en une nef que l'en apeloit Saint Nicolas: si la prist Pasquet Malons une matinee devant li iors, por mauvese garde que cil de la nef fesoient. Et autres Veneciens que Ienoes pristrent en Romanie, remestrent en Iene en prison» 52. La loro sorte fu triste e dura. Essi attesero la libertà sino al giorno della conclusione della pace definitiva, nel 1273, dopo sette anni di prigionia. La notizia del biografo provenzale viene così ad essere autorevolmente confermata. In questo periodo di tempo, dunque, immediatamente dopo la cattura dello Zorzi nell'ottobre del 1266, deve cadere lo scambio delle rime della nostra tenzone 53.

Altri fatti tuttavia, che i due componimenti richiamano più o meno apertamente, possono venire riscontrati nelle cronache del tempo, e da esse i versi dei due poeti sono rischiarati da più vivida luce.

In primo luogo l'accenno del Calvo alle recenti discordie interne di Genova, vv. 13-32: il tono è quello ispirato da un accorato amore di patria, da uno struggente desiderio di pace fraterna. Ora le vicende della storia genovese di questo per iodo tessono uno sfondo qu anto mai movimentato di lotte interne e di gelosie oligarchiche, spinte fino all'aperta violenza.

Dal dilemma tragico posto dalla discesa di Carlo d'Angiò nella penisola per una città come Genova, che voleva salvaguardare ad ogni costo la propria indipendenza e la libertà dei suoi commerci con l'Oriente, tutta la politica del Comune fu dominata e condizionata con le sue alterne fortune: col trattato di Ninfeo (1261), che aprì alla Repubblica il dominio dell'Egeo e del Mar Nero, la vita civile si fece ogni giorno più convulsa. Appena un anno dopo, 1262, ilcapitano del popolo Guglielmo Boccanegra fu deposto da una congiura organizzata e fomentata dall'aristocrazia guelfa e dall'alta borghesia: sotto il governo del nuovo podestà, due ambasciatori, un Fieschi e un Grimaldi, conclusero un trattato con Carlo d'Angiò, il quale, nella imminenza della spedizione in Sicilia, si assicurava così la neutralità di Genova. D'altra parte la repubblica, che impegni simili aveva sottoscritto con Manfredi nel 1257, nel 1259 e nel 1261, conduceva una politica manovrata e spregiudicata, incalzata sempre più dal vento dell'avventura in Oriente, al quale s'affidava una flotta dopo l'altra in un affannoso rincorrersi di scorrerie, convogli, traffici, scontri e fughe: su tutto imperava sovrana la sete del guadagno e l'ambizione sconfinata dei capitani dei vascelli. Così nel 1262 presso l'isola dei sette Pozzi la flotta genovese, comandata da due ammiragli e superiore per numero e per mezzi, fu vergognosamente sconfitta dai veneziani; l'amicizia col Paleologo, nauseato da tanta ingordigia di denaro e di potere, subì qui il suo primo gravissimo colpo. Quello seguente di due anni appresso, dovuto alle mene di tradimento di un certo Guglielmo Guercio genovese, fuil colpo definitivo, che allontanò i genovesi da Costantinopoli. Intanto il nuovo governo, ripristinato all'indomani della deposizione del Boccanegra, si dibatteva in una gravissima crisi. La parte guelfa, capeggiata dai Grimaldi, s'era impadronita dei centri vitali del governo della città, mentre la parte ghibellina, sotto la guida di Oberto Spinola, minacciava apertamente di rovesciare il regime e di impadronirsi del potere. In tale pericolosissima circostanza prevalse il buon senso: per suggerimento dei seniori, fu attuata nel 1264 una riforma elettorale, che portava praticamente ad un governo di coalizione delle diverse fazioni. Nè l'accordo fu privo di contrasti, se nell'ottobre del '65, mentre Carlo d'Angiò varcava le Alpi, la parte ghibellina, fedele interprete delle disposizioni  di Manfredi, tentò un colpo di mano ben presto sventato. Finalmente nella vacanza del podestà, vennero eletti due rettori d'alta autorità e di severo equilibrio, Guido Spinola e Nicola d'Oria: sono essi che assistono al duello tra Carlo e Manfredi, alla rovina di quest'ultimo, al trionfo del primo. E toccò al loro successore, al ghibellino Giacomo da Palude, trattare col vincitore e fargli dimenticare la lunga, scontrosa, abile neutralità di Genova. Ma nello stesso anno 1266, nelle acque di Trapani, ancora una terribile sconfitta subì la flotta genovese ad opera dei veneziani; al suo ritorno, il comandante fu giudicato e condannato. Le cronache, tra tante traversie e rovesci, si rianimano spesso alla notizia d'una scaramuccia vittoriosa o d'una cattura fortunata 54.

Un'altra conferma della datazione del sirventese è costituita dal riferimento del nostro poeta e del suo interlocutore alla battaglia di Trapani:

 

XVII, 20-21 E qui vos venz ar, no·s cug que·l n'eschaia
laus, ni bos pretz . . . . . . . . . . . . 55
 
e nella risposta di Bartolomeo Zorzi:
v. 45 e cum er an vencutz los Genoes 56

 

Anche l'allusione del poeta all'acortz (vv. 30-33), ch'egli teme precario, trova riscontro nel racconto degli Annali: quelle parole non possono essere riferite che alla riforma del '64,che schiarì il fosco orizzonte della politica interna genovese. Essa dovette alimentare molte speranze, che la nube passeggera della sommossa del '65 non distrusse del tutto: la sua eredità, come s'è visto, fu preziosamente feconda.

E se un'ipotesi può essere avanzata al fine di attribuire un senso preciso e particolare ad una frase in apparenza vaga e generica (v. 12,tan fort que totz vostr'amics se·n esmaia),certo con molta verosimiglianza s'identificherà ilvostr'amics con il Paleologo, che, del resto, viene esplicitamente e compiaciutamente colpito nella risposta dello Zorzi (v. 46). S'è già considerato quanto sia stata breve e travagliata lastoria della sua amicizia con i genovesi: dalla generosa apertura dell'accordo di Ninfeo, alla sfiducia ed al sospetto, fino alla rottura 57.

E l'ultimo accenno, laprotezione di Dio per i Veneziani, non sarà forse da riferire ai molteplici moniti del Pontefice, alle sue aperte minacce discomunica per l'empia alleanza col Paleologo? Le cronache, sia pure con tono sommesso, ne danno conferma 58.

Ma, nell'interno diquesti elementi secondari, fermenta soprattutto un lievito sentimentale d'intensa vitalità. Il componimento si apre con questi versi:

vv. 1-4 Ges no m'es greu s'eu non sui ren prezatz
ni car tengutz entr'esta gen savaia
genoeza, ni·m platz ges s'amistatz,
car no·i cab hom a cui proeza plaia. 59

 

Uno straniero fu, dunque, Bonifacio Calvo nella propria patria: una condizione di amara, ombrosa solitudine, la quale ben spiega il silenzio dei documenti ufficiali della repubblica.

Questo sdegnoso distacco, sostanziato d'amoroso cruccio, dalla vita civile di Genova, fu certamente mitigato dall'amabile commercio poetico con due compatrioti: Scotto Scotti e Luchetto Gattilusio. E se inutile si rivela lo sforzo di strappare a questa corrispondenza in rima un qualche contributo storico 60, possiamo pur sempre tenerci paghi d'aver potuto indagare, come in uno squarcio rivelatore, su tutto un periodo della vita di Bonifacio. Con questo ultimo indizio si chiude per noi la biografia del poeta.

 

***

La fragile linea, che s'è cercato di rintracciare nell'interno del canzoniere di Bonifacio Calvo, chiude un incerto cammino, dove confluiscono dati biografici ed esperienze poetiche. La frammentarietà di questa interna disposizione, dovuta sia all'esiguità dei testi, sia alla loro chiusa significazione, lascia sfumare ogni precisa attestazione nel grigio campo delle ipotesi. Ma pur tra le difficoltà obiettive, non riesce difficile cogliere i fatti più significativi della «storia» del poeta; in altri termini si può raggiungere e fissare un punto di visuale, dal quale la dispersa molteplicità degli elementi può comporsi in un profilo armonico. Quali siano gli episodi salienti, s'è già visto, allorquando di essi s'è indagato la rispondenza con i fatti della storia civile di Castiglia e di Genova. Tuttavia, insignificante (o almeno unilaterale e per ciò stesso falsa) sarebbe la loro funzione ai fini dell'interpretazione integrale del canzoniere, se con pari impegno e con più sensibile aderenza non si cercasse di integrare in un compiuto disegno altri episodi, che hanno la loro consistenza solo nel travaglio affettivo del poeta : più esplicitamente la stori a d'amore del Calvo si pone sempre come la più tenace e resistente trama del suo canzoniere.

Questa coincidenza di motivi appare subito salda nel secondo componimento storico (n. VI). Il canto, che è tutta un'esortazione alla guerra rivolta ad Alfonso X, si chiude col ricordo della donna amata:

VI, 41-44 Vai dir, sirventes noveus,
celleis, cui sui miels que mieus,
que·l bes, que·m fai, es a totz los prezanz
enantimenz e als crois desenanz. 61

 

Convergenza significativa, s'è detto nelle pagine precedenti; ma qui, abbandonando ogni preoccupazione biografica, bisogna indicare piuttosto un dato importante della vita del sentimento d'amore di Bonifacio. Poichè, anche per il nostro poeta, le rime amorose contengono le tracce di un'interna evoluzione, che costituiscono i motivi più perspicui dell'esperienza poetica del trovatore. Di questa «storia» ogni canto è una pagina o, più chiaramente, un momento vissuto 62.

Anteriormente a quello della ricompensa però, quale qui perentoriamente è richiamato (que·l bes, que·m fai, v. 43), si raggruppano con facilità altri motivi, che evocano il primo fiorire e poi le fortune dell'amore di Bonifacio Calvo.

Ancora al primo incontro, il canto del poeta (n. 1) è pieno di sofferenza e di trepidazione. Lo stesso tradizionale esordio naturalistico è piegato con un certo vigore di rappresentazione ad un senso nuovo:

I, 1-7 Er quan vei glassatz los rius,
e·l freitz es enics e fers,
que cotz e fen, sech'e trencha,
chant eu trop miels q'en abril,
q'encontr'amor, que tot m'art,
m'aiuda·l temps que·m refreia,
per que tant no·m greva·l fuecs. 63

 

E' certo un'opposizione cercata con violenza, una violenza che erompe nel canto, che nasce dall'amore: pois ar m'es agradius -lo temps, farai un nou vers- d'amor (str. II). Una contrapposizione, alla quale segue l'altra più reale e più intima, la sofferenza dell'amore non corrisposto e la speranza d'una felicità futura. Vi è quindi all'inizio una viva atmosfera d'abbandono, una sospirosa accettazione di dolore:

I, 29-32 E tant m'es sobriers sos brius,
que·m par que·m fraingn'e·m travers,
per qu'er tost ma forz'estencha,
s'Amors no·m socor . . . . 64

 

«Se amore non misoccorre» … ed è il «suo» amore, il sentimento di gentile rispondenza che il poeta ha intravisto nell'immagine della bella persona, di cui s'è invaghito. A dare una particolare individualità alla figura di lei concorre una ben rilevata lontananza, un distacco misurato con realistiche notazioni (27-29, al chaptener-voillatz gardar e non ges- al parage; v. 39-40, car ai mes... en trop haut luec m'entendenza), talchè essa rimarrà nel limbo d'un sogno sperato, nel quale solo il gesto genero so è vivo e solo il suo benevolo piegarsi:

II, 4-8
. . . . . . . . car m'a conques
vostra douza captenenza
e·l vostre genz cors honratz,
de que·m sui enamoratz
de corteza benvolenza. 65
 
II, 31-32 on plus fort mi conortatz
ab la vostr'umil parvenza. 66

 

La rappresentazione si fa altrove più nitida e commossa, d'una intimità tutta spirituale: in questo clima d'esaltazione ilpoeta compone il suo canto (n. III, 1 -8),con una lievità naturale, tenue e trasparente. Egli coglie dell'immagine bella solo alcuni tratti, i più significativi:

III, 9-16 Mout fon corals lo dezirs
que·s venc en mon cor assire
can de sos oils la vi rire
e pensar ah mainz suspirs,
camiant mais de mil colors:
don una douza dolors
me·n venc el cor, que doler
mi fai senes mal aver. 67

 

Il sorridere dei suoi occhi e il palpito del suo pensare sono ambedue l'ineffabile trasfigurazione di lei in una realtà nuova e diversa: i suo i lineamenti si illuminano d'una luce tutta spirituale, il suo sorriso è una vaga e perduta fissità dello sguardo e il suo parlare un continuo tramutarsi, un trasalire mutevole per ogni sospiro. Di questa bellezza egli s'è innamorato: al cuore ne sente un dolce dolore, un'ineffabile sofferenza, una trepidazione ansiosa:

III, 17-24 Non es renda ni avers
per qu'eu camies mon martire
-tant fort mi plai!-, e l'azire
c'aissi entre dos volers
m'estauc ab ris et ab plors,
ab trebaill et ab douzors:
aissi·m cug iauzenz languir
tant, qu'il deing mos precs auzir. 68

 

Questa è l'unica realtà che viva, la sola che abbia una vera consistenza: il travaglio interiore del poeta, il suo gioioso patire, il suo infinito soave languore. Nei termini della lotta vittoriosa, del fuggevole alternarsi di riso e di pianto, di affanno e di dolcezza, è chiuso il felice scorrere della vita del poeta, come in una confessione. Ma ad essa il trovatore non s'abbandona con compiaciuta debolezza; al contrario, ritrae il moto suo interno nella sua vigorosa attualità, lontano da ogni psicologismo di maniera, con forza ed autonomia di linguaggio.

Altra movenza del motivo d'amore è la sua dichiarata umiltà, anch'essa sostenuta da una forza attiva, da quel certo dinamismo interiore, che costituisce la sua risorsa più valida: tanto in alto ella s'innalza per la sua nobile bellezza che il poeta non si sente degno di desiderare il suo amore (n. IV). Ma, anche qui, ogni riferimento biografico (direi sociale) è subito superato e diviene secondario a contatto con il fervore sentimentale. La lode della sua bellezza e della sua nobiltà è preparata dall'espressione di grande umiltà, perchè più vero ne sia il contrasto, più vivida l'ammirazione; da ciò nasce un sottile piacere, il piacere della sofferenza, che è come la contemplazione, assaporata momento per momento, dell'affanno e del tormento d'amore:

IV, 17-22 Mas ben crei que trop derreiar
m'a faig sos finz pretz cabalos,
que·m fai del meu turmen pagar
tant, que non es ma sospeizos
que sia bes que vailla·l mieu
maltrag; . . . . . . . . . . .  69

 

In questi pochi accenni è compreso il primo episodio della «storia» del Calvo. Al primo appressarsi dell'amore ed al suo crescere ed alla sfuggente benevolenza di lei, distaccata e lontana in un contegno fatto di riserbo amoroso e cortese, s'è levato il canto del poeta. E' stata la prima e la più serena voce d'evocazione, la più chiara e la più incantata 70.

Intorno ad essa ben presto s'accesero furori di guerra e fu come soverchiata, nell'animo stesso del trovatore, dal grido dell'imminente battaglia. Il risuonare delle trombe e dei corni (nn. V, VI e VII) echeggiò nel breve giro di qualche stagione -come s'è visto-, per cadere ben presto nella delusione della dura realtà politica.

Torna il poeta a cantare d'amore (secondo episodio); ma giammai nel suo spirito inquieto torneranno a fiorire le antiche rime d'ingenua dolcezza. Siamo di fronte indubbiamente ad un uomo nuovo, o almeno ad una crisi profonda del vecchio. Ad un periodo, che possiamo chiamare dell'innamoramento, succede uno svolgimento diverso, come condizione ed espressione di poesia: s'intravedono i primi segni d'interessi diversi, il primo sforzo d'inserire il sentimento d'amore in una realtà giornaliera e perciò estranea. In questo contrasto consiste il dramma umano del Calvo ed anche lo scadimento della sua poesia verso valori puramente moralistici e didascalici. La rievocazione di questo sforzo, cioè di questa dolente ed amara rivolta, della gelosa e sdegnata ritrosia dinanzi ad una realtà ostile e nemica, tarda a trovare un'espressione trasfigurata e ristagna a lungo in una fredda ed inerte dialettica discorsiva (il motivo del dono, per esempio). Quando finalmente si libera, attinge a volte accenti di sincera commozione, sia pure incisa con i segni d'una inquieta e distaccata ispirazione (motz serratz).

Nella linea dell'interpretazione proposta, la «storia» del Calvo ha un senso chiaro e conseguente: le sue rime ne sono il documentò più valido 71.

Il canto IX è uno dei più significativi, poichè apre veramente il nuovo cammino. Anche qui l'eco d'antichi motivi si ripete, come a segnare la continuità d'una identica vita; ma si inseriscono nuovi sviluppi di grande interesse.

L'inizio del canto ha un legame strettissimo coi precedenti; anzi -diremo- di essi raccoglie le movenze più risentite. Si apre infatti col dubbio (vv, 5-9), che il contegno di lei, per la sua riservatezza, lascia sorgere nell'animo del poeta: basta richiamare per ciò i vv. 33-40 della canz. II, i vv. 22-24 e 38-40 della canz. IV; si continua e s'allarga col tormento d'amore, che costituisce, come s'è visto, il motivo dominante e più vigoroso di tutta la prima parte del canzoniere.

Ora su questo sfondo, fuso in una unitaria ispirazione, compare un motivò nuovo, il quale, col suo sviluppo, condiziona tutto quanto lo svolgimento successivo della lirica calviana. Il trovatore accenna per la prima volta alla lontananzadella donna amata:

IX, 31-43 Mas s'il auzis
con li sui fis
e leials ses tot cor vaire,
   non crei sufris
   c'aissi languis
finz amanz e merceiaire.
   Mas non l'es vis
   qe·il si'aclis
con sueil, car ieu non repaire
   vas son pais
   con li promis:
e per so·m liur'ab maltraire
on plus li sui fiz amaire. 72

 

Ancora una volta con sincerità d'accenti il poeta canta la sua sofferenza d'amore: solamente nella riconferma della sua devozione egli trova l'unico conforto al suo male. E' la sottile e pur diffusa malinconia, che s'effonde tra verso e verso, ad evocare il senso della lontananza, di tempo e di luogo; una pausa, che congiunge il passato, così caro al ricordo, e il presente così sofferto e logorante. Su questa soglia, che segna veramente una fase culminante, si decide il destino della «storia» d'amore del Calvo, ed anche della sua espressione poetica. Da essa nasce decisamente la lotta affannosa d'ogni giorno alla ricerca d'un «valore» più grande ed alla conquista d'un «onore», che cancelli e sovrasti una distanza materiale (sia essa paratge, sia essa «lontananza»); da essa s'origina anche la ricerca lenta e faticosa d'un linguaggio poetico nuovo. Tuttavia questo sforzo non troverà un approdo definitivo: quando s'incomincia ad intravedere una soluzione con il distacco doloroso e liberatore dall'ambiente della corte castigliana, la morte della donna chiuderà il cammino d'amore del poeta.

Ma prima che un tale processo si compia, negli avvenimenti e nello spirito del trovatore, abbiamo una serie di tentativi, che testimoniano le illusioni, le speranze, i sogni ed anche le cadute, le delusioni, le sconfitte subite. E' quel continuo contatto con la realtà, di cui s'è parlato, che non riesce a trovare la sua strada per una valida trasfigurazione lirica. Ecco infatti la strofe seguente:

IX, 44-59 Ja de si no m'an
     lueinhan,
   si trebailan
mi vauc ar sai en Espaignha,
   com m'empeinh'enan,
     puian
ma valor tan
que sos valenz pretz no·s fraignha,
   ni·s dechaia, can
     semblan
   petit ni gran
fassa, que vas mi s'afraingna;
   car, a lei d'aman,
     de dan
le vauc gardan
en tot que·s coven e·s taignha. 73

 

La donna èlontana, fuori della Spagna. Il poeta invece èrimasto in quella terra, a cercarvi un più alto «onore». Il suo tentativo di uscire da una realtà contingente, materiale ed angusta, è esplicito nella ricerca d'un «valore», che vinca ed annulli una condizione di triste inferiorità e di dolorosa lontananza 74. In tale sforzo di elevazione, che per ora èdel tutto terreno e pratico, s'intravedono i primi segni della lotta contro le leggi d'una società ostile; e quel debole respiro iniziale, ilquale in certo modo apre ilmotivo del faticoso ascendere ad un trasporto lirico vigoroso, ben presto s'attenua e si smorza nel risucchio di mille frammenti d'una prosaica freddezza. A contatto di essa (... a lei d' aman -de dan- la vauc gardan- en tot que·s coven e·s taignha)si fa sempre più debole ogni legame con l'interiore travaglio, e l'affanno dell'estenuante dissidio s'esprime solo in una stanca, riluttante, dubbiosa pena d'amore (strofe V).

Da questi versi nasce veramente tutta quanta la poesia moraleggiante del Calvo, con i suoi motivi disperatamente nudi, che rievocano con impersonale struttura le varie fasi della sua lenta ed amara delusione per le ingiustizie di questo mondo.

I motivi più evidenti di questa progressiva sconfitta si rilevano nei canti successivi. Il decimo è, a tale riguardo, chiaramente indicativo. In esso il poeta biasima la falsità degli uomini, ele sue parole sono come il primo contatto col freddo, ambiguo epur solido «muro»della società:

X,1-9 Per tot zo c'om sol valer
   e esser lausatz
desval et es encolpatz,
c'ar es proessa follia
e leialtatz non·sabens
e gaieza leviaria:
c'aissi es camiatz valers
en avoles'e il en lui, qu'om te
lo croi per pro e que·l pros non val re. 75

 

Da ciò ne viene il primo distacco, un timoroso ritrarsi, un ombroso ridursi entro i confini più stretti della propria limitata realtà:

X, 19-20 Anz voill ab aital voler
meinz poder assatz..... 76

 

E sullo stesso piano, con rispondenza parallela, s'inizia la cosciente evoluzione del suo linguaggio poetico verso una solitaria figurazione: quel chiudersi dentro di sè e quel guardarsi nel cerchio molto stretto del suo voler, si traduce anche nella ricerca d'una espressione chiusa, che abbia in sè e per sè la ragione del suo essere:

X, 28-36  E sai qu'eu farai parer
   ab mos ditz serratz
 qe·m lau con outracuidatz;
 non a totz, que, s'o fazia.
 de messoini'auria·l vers
 semblanç'e tant se valria.
 Mas si tot no·m faill lezers,
ges de chantar no·m menbra, ni·m sove,
mas sol per cels qu'entendemenz soste. 77

 

«Per quelli che intendono la ragione del canto»: una limitazione notevole, che separa il mondo del proprio sentimento da ogni eco esteriore, che sia insensibilmente sorda o malevolmente curiosa (vv. 42-44, ... a far quesia -perdutz l'auzirs e·l vezers- e·l senz dels avols). Inquesto continuo alternarsi d'esperienze pratiche e di movenze poetiche credo che sia da individuare l'interna debolezza dell'ispirazione del Calvo, ancora stretto nell'angustia della lotta giornaliera ed ancora legato ad una espressione calligrafica della sua vita sentimentale.

Sono i canti XI, XII e XIII, i quali mostrano un tale atteggiamento attraverso la loro scarna tematica, quasi sempre di tono moraleggiante e didascalico. La loro impersonale struttura, mai sorretta da viva partecipazione affettiva, delinea lo scadimento della poesia del trovatore verso motivi comuni della casistica tradizionale: la falsità e malvagità degli uomini (n. XI), la disonestà dei cattivi consiglieri del re (n. XII), la misura del dono (n. XIII). Invano si cercherebbe in essi un alito di commozione, sia pure in una elementare trasfigurazione: tutto è freddo, inerte, lontano. E' che il fondo dell'ispirazione resta sempre la realtà meschina della lotta per la ricerca dell' «onore» più alto; meschinità non in sè, chè, anzi, avrebbe mosso una fantasia fervorosa verso un 'agitazione contrastata ed esaltata, ma meschinità di rappresentazione, poichè tutto lo sforzo creativo riesce solo ad una trasposizione impersonale senza vita e giustificazione interna 78. Se un valore, dunque, questi canti conservano, esso è di natura strettamente biografica: recano la testimonianza del fallimento del poeta nel tentativo di raggiungere una posizione alla corte di Alfonso X e ilsuo ormai progressivo allontanamento da un ambiente triste ed ostile. L'ultima strofa del canto XIII muove finalmente le acque stagnanti del moralismo generico; essa chiude un episodio (ilsecondo, la delusione) della storia d'amore del Calvo 79. E' il primo accenno ad una nuova esperienza:

XIII, 33-40 Tant mi fai ma dompn'amar,
Amors, que·n sui fols iutgatz,
que, can deuria poingnar
el rei deservir, li fatz
plazer; e non me·n tueil ges
car sai qu'il me·n degra rendre
bon guierdon, si·l plagues
a dreg sa merce despendre.80

  

L'occasione del canto è scoperta; debole ogni interna seduzione. Ma finalmente si apre la via ad una motivazione, sentita liricamente, della vita del poeta. Essa è frutto d'una amara delusione, poichè il definitivo abbandono della «protezione» di Alfonso, con la conseguente rinuncia all' «onore» del mondo, significa anche il distacco decisivo da una realtà, assolutamente negata alla poesia. Da qui s'inizia quel tentativo di astrazione della sua vita sentimentale, quella reale contemplazione interiore, che è l'ultimo esito del canto d'amore di Bonifacio. Si rilegga l'inizio della canzone XIV, 1-2:

Lo maier senz, c'om en se puosc'aver,
es saber far qu'aia luec sa valors... 81

 

Dopo tanto vagare, il poeta è giunto infine ad un punto fermo: egli riconosce che solo vero unico valors è quello che ognuno ha in sè, per sua natura. Ad una tale conclusione, che deriva da una sconfitta, ma che è in definitiva una conquista, egli è giunto attraverso due esperienze: l'inganno degli uomini (il «muro» della società) e la lontananza, materiale e ideale, della donna amata. Ed è questa una confluenza che va rilevata, poichè riassume con la ricchezza dei suo i motivi tutta l'unitaria vitalità del canzoniere calviano. Il secondo di questo duplice aspetto è testimoniato appunto dal canto XIV, in cui si riprende il tema dell'amore secondo la nuova esperienza:

XIV, 5-8 Per que·m sui trop folamenz capdellatz,
car en servir leis, que non entendia
que mos servirs li fos pretz ni honors,
mescabei tant, qu'era·m fai trop doler. 82

 

L'inizio della canzone, che pareva comprendere un rilievo generico, si apre in questi versi ad una sua intima ragione: l'atteggiamento della donna, una volta benevolo e cortese pur nella sua distanza, ora provato anch'esso dalla malvagia incomprensione degli uomini, s'è ancor più irrigidito 83. Una duplice delusione, dunque: quella dell'ambiente cortigiano e quella della sua donna. Ma senza dubbio l'ultima è veramente l'unica a dare sostanza al canto, poichè rimane il motivo dinamico di esso. Infine la canzone d'amore acquista un senso nuovo.

Come il poeta ha finito col chiudersi in se stesso, allorchè la società lo ha respinto, così anche ora l'incomprensione della donna, amata lo conduce ad appartarsi. Questo graduale appartenersi, questa dolorante conquista di se medesimo, è cantata dal trovatore con chiari accenti:

XIV, 9-16 E s'ieu anc iorn mis tant a nonchaler
mon sen, qu'en luec mi pogues metr'Amors
on no·m valgues amar senes bauzia
ni genz servirs, ben me·n sui chastiatz.
E s'ieu com fols ai estat malmenatz,
non se·n pretz mais cil qu'en vil mi tenia,
car ab mo sen revenrai tost aillors:
don valra meinz, car no·m saup retener. 84

 

Qui è in apparenza il distacco dalla persona cara, la rottura della relazione e il suo rinnegamento. In verità è solo il rifiuto di una realtà esterna, estranea ed ostile, che ha offeso la pura nobiltà del suo amore ed ha determinato l'incomprensione di lei. Egli rimpiange il suo «senno», il suo equilibrio, che avrebbe dovuto guidarlo a comportarsi in modo tale da non subire disonore. Ecco perchè, con una condanna che solo formalmente comprende anche la persona amata, il poeta anela ad una compostezza interiore, faticosamente raggiunta attraverso gli errori del passato: in tal senso è anche il ritrovamento d'una interna verità:

XIV, 25-32 E iamais non farai a son voler
de creire hoeils, ni senblanz trichadors,
car cel es fols qui per fol cor se guia;
mas cant mos cors er ben dregz e senatz,
adonc volrai per lui esser guiatz.
Pero el ben oimais saber deuria
cal frug sap far leuiari'e follors
e cal pretz n'a qui las vol mantener. 85

 

I primi versi della strofe citata mostrano appunto in quali termini è da intendersi e risolversi l'apparente con traddizione: pazzo è stato il suo cuore a credere agli occhi sorridenti di lei, al suo gentile contegno (creire hoeils, ni semblanz trichadors); ed in ciò è anche compresa l'ingannevole lusinga dei falsi e dei volgari, la loro vile maldicenza. A questa cieca fiducia (leviari'e follors)egli ha affidato il destino del suo amore e ne ha avuto delusione e dolore. Perciò il poeta desidera che il suo cuore torni dregz e senatz, abbandoni leviari' e follors, abbia pieno e totale dominio di se stesso. Ecco la ragione del canto: il suo dolore per l'inganno subito, il suo cruccio per aver creduto nella bontà ed onestà degli uomini e più nella sincera liberalità della donna. L'una e l'altra cosa è caduta e non gli resta che il suo sentimento d'amore. E' un promettersi ad una vita nuova, più cauta, ma insieme più piena: in questa intima integrità è il senso nuovo del canto d'amore del Calvo:

XIV, 33-40 Per qu'eu oimais de lui bos faitz esper,
e voil ab lui quer'aiud'e socors
az Amor, car senes leis non sabria
viure iauzenz, tant mi platz s'amistatz!
Car d'Amor mou deportz, chanz e solatz
valors verai'e tota cortezia:
per c'om deu contar mest los sordeiors
totz cels que puinhon en leis dechazer. 86

 

Negli ultimi versi è la definizione di quella realtà, che delude ed offende il poeta: per c'om deu comtar mest los sordeiors-totz cels que puinhon en leis dechazer («perciò si debbono considerare fra i più volgari coloro i quali si sforzano di mal comportarsi con Amore). In tal modo l'apparente contraddizione si risolve in quanto significa l'interno travaglio che muove e agita lo spirito del poeta. Resta tuttavia questo sforzo d'interiorizzare, questo tentativo di idealizzare la vita del sentimento, che è l'ultimo e il più difficile motivo del canzoniere del trovatore 87.

La canzone più rappresentativa di questo gruppo è la quindicesima, poichè essa conclude in un certo modo il disegno creativo del poeta, la pagina più significativa cioè della sua storia. Gli accidentali e particolari sviluppi che altrove hanno attardato e raggelato l'ispirazione (i cattivi signori, i malparlieri, ecc.), tornano anche qui quasi ad ogni strofe, ma con ben altra fisionomia. Il distacco da essi, di cui s'è parlato, è misurato interamente da quell'isolamento interiore, che Bonifacio ha attinto per esperienza umana e poetica. Se ne consideri il notevole rilievo:

XV, 1-14 S'ieu d'ir'ai meinz que razos non aporta
e chantan mais co menz par l'uchaizos,
qu'er a chantar m'es aiud'e socors,
no se·n meravil hom, car mi conorta
rics cors, qu'ades m'enanç'em bon esper
per qu'eu sui gais ecant senz tot temer,
   qu'eu non envei
   ric d'amor frei,
   ni·m fan paor
   galiador
   ni mal parlier
   d'autrui mestier;
pero s'ieu d'ira fos del tot loingnatz,
meils for'adreitz vas los gent enseingnatz. 88

 

Sarebbe agevole cercare a questi versi, e ai seguenti, puntuali richiami, se non altro, per sottolineare l'effettiva distanza che separa i singoli accostamenti: ira, n. XIV ; ric d'amor frei, n. XI; galiador ni mal parlier, VIII, 33-40; IX, 51-70 e X; autrui mestier, n. VIII, XII e XIII; genz enseingnatz, X, 34- 36. Ma, al di là di tale differenza di tono, che implica il superamento di tutta una vicenda e di uno stato d'animo, appare un motivo nuovo: ...car mi conorta -rics cors, qu'ades m'enanç' en bon esper, ... «poichè mi spinge un nobile cuore, che sempre mi solleva in buona speranza». E' il canto della liberazione, o almeno quello, in cui la speranza di u n rinnovamento è più chiaramente e liricamente sentita. Come al solito, una condizione di ordine pratico la  origina:

XV, 15-17 Si m'atrai senz vas l'Ardit, que·m deporta
tan gen que·m mou plus espertz que·il ioios,
que no m'es grieus capteinz d'avols seingnors ... 89

 

Un nuovo signore, sintesi delle virtù cortesi, in un mondo migliore: ecco ilprincipio d'un giorno nuovo, l'evasione da quella realtà che ha soffocato l'amore e la vita stessa del poeta. Questo gioioso anelito (... que·m mou plus es pertz que·il ioios) nasce da due fonti diverse e convergenti: l'amore per la donna e l'amore di sé. S'è già visto come tutta l'ispirazione poetica di Bonifacio sia mossa da queste due forze, l'una all'altra legata. Amore di donna, e, per esso, amore di sé, d'una posizione cioè degna di lei, d'un «onore» riconosciuto e premiato. Al limite del fallimento, una nuova speranza dunque s'apre al suo cammino: un altro signore, Ardit, un'altra corte ospitale, certo un giusto riconoscimento dei suo i meriti, e forse, anche, un altro sorriso della donna. Convergenza dei due motivi fondamentali del suo canzoniere, s'è detto, rappresenta questo canto XV, ed insieme illoro riconoscimento più intimo:

XV, 25-28   E s'ieu en mier
   mal, tant sobrier
mi son estat mei seingnor, que·l pecatz
merces mi senbl'e gran humelitatz. 90

 

Si nota già l'approfondimento del suo mondo interiore, in una sofferta rievocazione: raramente i suoi versi hanno raggiunto tanta serena limpidezza e tanta accorata potenza. In questo consiste il superamento d'un linguaggio poetico rimasto a lungo irretito nelle secche del moralismo, un superamento perciò che, prima d'essere di poesia, è di situazioni pratiche e contingenti. Non vi è dubbio che in alcune parti del canto si rivela una robusta vivacità nuova, una freschezza presentita, più che espressa e rappresentata:

XV,29-42 E si lai venz m'enpeinh, ni fustz mi porta
on es l'adreitz seingner francs amoros,
en cui es finz pretz e vera valors,
ben er del tot m'ira delid'e morta.
E sapchas ben que grieu pot remaner,
qu'eu non fassa tant que·l posca vezer,
   sol m'o autreia
   cil, cui soplei
   e qu'eu azor
   per fin'amor
   ab cor entier.
   E s'eu m'enquier
per que·m sui tant de lui vezer tardatz,
respondre·m posc: per zo qu'a lui non platz. 91

 

Sono i primi segni d'una lenta evoluzione. E quanto sia lontana una sua composta e compiuta realizzazione, lo dimostrano le due strofi successive (IV e V), in cui si ricade nell'aspra ed arida polemica di tono moraleggiante.

Con questo canto, così pieno di significazioni sul piano umano e sul piano poetico, si chiude purtroppo il canzoniere d'amore di Bonifacio Calvo. La morte della donna amata privò il poeta della sorgente più viva della sua ispirazione, e gli tolse, anche, ogni forza morale per sopravvivere:

XVI, 10-11 E car non posc peiurar ab murir,
mi lais viure tant trist ……….. 92

 

Il poeta, che aveva intravisto l'alba d'un giorno nuovo ed aveva trovato in ciò nuova forza per cantare, si ritrae nel rimpianto e nella rinuncia.

 

***

Breve e difficile «storia», questa di Bonifacio Calvo; tutta una sequenza di motivi appena tracciati o subito sfumati. A noi non resta che l'illusione, a volte fuggevole, di intravedere un quadro unico. Dalle prime rime sino a quelle del planh, s'è cercato di tendere un arco continuo: l'innamoramento e il cortese gradimento di lei (I episodio), la guerra e il falso ambiente di corte, il vano tentativo di farsi onore (II episodio), la rinuncia alla protezione di Alfonso e la speranza d'una vita nuova (III episodio), la morte della donna amata e il ritorno in patria (IV episodio). In queste poche righe consiste tutta l'esperienza poetica del trovatore; e la sua ricostruzione unitari a costituisce l'unico modo d 'intenderne la direzione e il valore. Al di fuori di tale rischio, si resta pur sempre nel campo del frammento, per poco o per nulla significante: ora, in verità, m'è sembrato preferibile aprire la strada ad una più ordinata e vivificatrice lettura della sua poesia. Da qui s'inizia, credo, la conoscenza della sua vera «storia».

 

Note

1. JEHAN DE NOSTREDAME, Les vies des plus célèbres et anciens poètes provençaux, prép. par C. Chabaneau et publ. par J. Anglade, Paris, Champion, 1913, pag. 68. Le opere del Soprani e del Giustiniani, tra noi, e del Millot, in Francia, provano il credito che fu concesso al Nostredame; solo lo Spotorno mette in dubbio le sue notizie. Vedi Li scrittori della Liguria e particolarmente della marittima, di R. SOPRANI, in Genova, per Piero Giovanni Calenzani, 1667, pag. 64; Gli scrittori liguri descritti dall'ab. M. GIUSTINIANI, parte prima, in Roma appresso Nicol' Angelo Tinassi, MDCLXVII, pp. 153-4; MILLOT, Histoire littéraire des troubadours, t. II, Paris, Durand, 1774, pp. 350-370; G. SPOTORNO, Storia letteraria della Liguria, Genova, 1824, pp, 258-266.

2. Nel maggio del 1251: «... placuit tunc sapientibus Ianue ut ad ipsum regem legati miterentur, causa componendi cum eo qualiter negociatores Ianue illuc et ad alias terras regni sui quas habebat et in posterum haberet accedere deberent et quod et quantum pro drictu et exaccionibus solvere deberent, et postularent a rege contratam sive locum in ipsa civitate, in quam haberent negociatores Ianue fondicum, domos, ecclesiam et furnum sicut in pluribus civitatibus habent et habere consueverunt... que quidem conventio postea completa fuit per virum nobilem Nicolaum Calvum, qui ad ipsum regem pro ipso facto fuit in legatione trasmissus»; vedi Annali genovesi di Caffaro e de' suoi continuatori dal MCCXXV al MCCL, a cura di C. IMPERIALE DI SANT' ANGELO, Roma, 1923, vol. III, pag. 183 e sgg. Per il 1261, vedi Liber lurium Reipublicae Genuensis, in Hist. Patr. Mon., t. I, 1854, col. 1060 e 1392.

3. O. SCHULTZ, Die Lebensverhältnisse der italianischen Trobadors, in «Zeitschr. f. rom. Phil.»,vol. VII (1883), pag. 255.

4. Vedi MILÁ Y FANTANALS, De los trovadores en España, Barcelona, J. Verdaguer, 1861, pag. 204. Dopo aver esposto questa ipotesi, il Pelaez così conclude: «Ma la poesia di Bonifazio non pare s'accordi in tutto coi fatti che abbiamo narrato»; e nelle pagine seguenti mette in rilievo come i Guasconi si fossero offerti spontaneamente ad Alfonso X e come i Navarresi nella questione non avevano avuto parte alcuna. Vedi MARIO PELAEZ, Bonifacio Calvo, trovatore genovese del XIII secolo, in G. S, L. I., vol. XXVIII (1896), pag. 15.

5. Per questi precedenti, vedi CH. BÉMONT, Simon de Montfort, comte de Leicester. Son gouvernement en Gascogne (1248-1253), Nogent-le-Rotrou, impr. de Gouverneur, 1877; e dello stesso autore, Simon de Montfort, comte de Leicester. Sa vie (120?-1265). Son rôle politique en France et en Angleterre, Paris, A. Picard, 1884, pag. 50 e sgg.

6. Essi sono: Elias Rudel di Brigerac, Arnald di Marsan, Arnald Guilhelm di Gramont, il visconte di Tartas, Herveius di Ruffeud, Aimeric di Malemort, vescovo di Limoges, Bernardo di Boville, gli arcivescovi di Saint-Lizier, di Couserans, di Lectoure, Tarbes, d'Aire, Lescar, Oloron, Aquis, Bazas, Riccardo di Cornovailles e di Poitou. Ma figura anche una richiesta alla regina di Navarra: «Mandatum est regine Navarre quod mittat Regi quinquaginta, vel sexaginta ballistarios equites. Et misse fuerunt littere ille et littere directe Johanni de Molendinis, per fratrem Guillelmum Remundi, preceptorem hospitalis de Buret, Galfrido de Bello Campo, ad trasmittendum per ipsum eisdem regine et Johanni»; vedi Rôles gascons transcrits et publiés parCH. BÉMONT, t. 1er, 1242-1254, Paris, Impr. Nation., 1885, e Supplément au tome premier, 1254-1255, Paris, 1896, n. 3556. L'unico altro documento riguardante le relazioni tra Guascogna (e per essa l'Inghilterra) e la Navarra è un salvacondotto concesso da Enrico III il 26 ottobre 1253 a Margherita: «Rex, per litteras patentes, concessit Margherite, illustri regine Navarre, et familie sue salvum et securum conductum in eundo per totam terram regis Vasconie versus partes Campanie, duraturas usque ad Pentecostem proximo futuram»; si trova in Lettres de rois, reines et autres personnages des cours de France et d'Angleterre depuis Louis VII jusqu'a Henri IV, par CHAMPOLLION-FIGEAC, t. I, 1162-1300, Paris, Impr. Royale, 1849, pag. 92, n. LXXXI.

7. La bolla del papa è notificata ai ribelli il 21 dicembre 1253 dal decano di Saint-André di Bordeaux «ut ipsi a pertubacione et invasione terrarum et possessionum prefati regis cruce signati, desisterent» vedi Lettres de roisecc., op. cit., pag. 100.

8. Foedera, Conventiones, Litera et cujuscumque generis Acta Publica inter Reges Angliae et alios quosvis Imperatores, Reges, Pontifices, Principes vel communitates ab ineurite Saeculo Duodecimo, vig. ab anno 1101 ad nostra usque Tempora, Habito aut Tractato, accuranteTHOMAS RYMER, t. I, Londini, 1704, pag. 503; e Lettres de rois, cit., pag. 122, n. XCIII.

9. Per tutto l'episodio si ha il racconto in MATTHAEI PARISIENSIS, Chronica majora, edited by Henry Richards Luard, London, 1880, vol. V, pp. 365-400. Oltre ai Rôles gasconscit., pag. LXII e sgg., fondamentali per l'argomento, vedi G. DAUMET, Mémoire sur les relations de la France et de la Castille de 1255 à 1320, Fontemoing, Paris, 1913, pag. 1 e sgg.; e A . BALLESTEROS, Itinerario de Alfonso X, rey de Castilla, in «Boletin de la Academia de la Historia», vol. CIV (1934), pag. 464 e sg.

 

10. «Molto tempo è che non mi ricordai di cantare; ma ora me ne sovviene, perchè sento qui dire e raccontare che il nostro re, chiunque sia che di ciò s'offende e s'adira, vuole entrare subito in Guascogna con tale forza di armati, che nessun muro o bastione la possa fermare».

11. «Così che il suo valore faccia parlare i migliori; e per emulare il padre si deve molto sforzare, perchè fu più valente e di più seppe conquistare e più si fece onorare, che nessun re che sia mai vissuto; perchè, se non lo uguaglia o non lo supera, molto qui avranno da dire». «Ma niente mi fa dubitare ch'egli non lo superi in breve tempo, tanto è grande il desiderio di innalzare ilsuo pregio». «Re di Castiglia, poichè ora non vi manca la forza, nè il senno, e Dio vi è benigno, pensate a conquistare».

12. «Per questo mi piace esaltare col canto il suo grande valore, poichè ora comincia senza tardare a richiedere i suoi diritti tanto imperiosamente, che senza nulla replicare i Guasconi e i Navarresi facciano i suoi comandi, ed egli li mette a martirio col prenderli ed ucciderli».

13. « ...per cui comincia subito il re leale e valoroso col fermo proposito di portare a termine l'impresa».

14. Vedi la traduzione alla nota n. 12.

15. «Lo vedranno senza indugio dritto verso di essi cavalcare con tali forze, che non si possa trovare in campo uno simile a lui, e lo vedranno là tanto valorosamente combattere ed assalire e rompere e ardere ed abbattere mura e torri, che li faccia sottomessi venire alla sua mercè».

16. Anche il Pelaez ha avuto una tale impressione: «Ma ancora più ci meraviglia quel che dice il Calvo nella stanza seguente, nella quale, con molta efficacia di pensiero e di forma, immagina di vedere il re muovere contro i nemici e nel loro paese compiere una vera opera di distruzione, quasi che si trattasse di domare dei ribelli», art. cit., pag. 16.

17. M. MILÁ y FONTANALS, De los trovadores en España, op. cit., pag. 203.

18. «Das Sirventes Verz. 101, 17 un nou sirventes ses tardarfällt höchst wahrscheinlich in das Jahr 1254, denn, soweit ich dasselbe verstehe, tadelt er hierin Alfons wegen Lässgkeit und Kriegsunlust, was er nur thun konnte, nachedem zwischen den Heeren Alfons' von Castilien und Jacobs von Aragon, die sich 1254 feindlich gegenüberstanden, von den Präleten vermittelt worden war und aus dem Kriege nichts wurde»; cfr. O. SCHULTZ, Die Lebensverhältnisseecc., art. cit., pag. 225. Al periodo precedente alla tregua pare che riferisca il canto il Ballesteros nell'Itinerario sopra citato, pag. 479, n. I: «Distan los belligerantes media legna, pero el Rey de Castilla prudente, come dice el poeta Bonifacio Calvo, prefiere cazar con halcón a ponerse la coraza». Dico pareperchè, oltre all'evidente distorsione del testo provenzale, lo storico continua col narrare l'accordo avvenuto tra

i due re, ed ancora dice: «Los dichos poéticos del trovador Bonifacio Calvo no deben tomarse a la letra, aunque se refieren a este momento de la contienda castellano-navarra, porque aparte del hecho cierto de que no hubo combate, son una apreciación personal del vate, y conocida es la tendencia satírica de la poesía provenzal».

19. M. PELAEZ, Bonifacio Calvo, trovatoreecc., art. cit., pag. 11-12; e nell'art. precedente Di un sirventese-discordo di Bonifacio Calvo, in «Giornale ligustico di arch. stor. e lett.», vol. XVIII (1891), pp. 382-399. Unica voce discordante è quella di Émeric-David, nell'art. dedicato al nostro trovatore nell' HistoireLittéraire de la France, vol. XIX, 1838, pag. 587, il quale sostiene che i sirventesi si riferiscono alla guerra del 1274 tra il re d'Aragona, il re di Castiglia e Filippo l'Ardito per la successione di Enrico di Navarra. Come si sa, Enrico III era successo al fratello Tibaldo V nel 1270 e a sua volta lasciò la corona il 22 luglio 1274 alla figlia Giovanna, sotto la tutela della madre Bianca d'Artois. L'occasione propizia spinse Alfonso X a tentare l'invasione della Navarra con l'assedio di Viana, presso Logroño. Ciò provocò, insieme con la designazione di Pedro Sanchez de Monteagudo a governatore, il malcontento di alcuni signori navarresi e la guerra civile nella stessa capitale Pamplona. Bianca trattò il matrimonio della figlia con En Peire, figlio di Giacomo I d'Aragona, e fuggì in Francia, mentre le Cortesratificavano con dubbia unanimità il progetto di matrimonio. Nel 1275 con il trattato d'Orleans la reggente rovesciò il fronte politico delle alleanze, affidando la protezione della Navarra al re di Francia, un figlio del quale era promesso in sposo alla figlia. Per una serie di circostanze (che qui è inutile ricordare) nel 1276 Filippo IV il Bello divenne erede presuntivo al trono di Francia e fidanzato dell'erede di Champagne e Navarra e notificò ai baroni navarresi i termini del trattato d'Orleans. Questi ultimi accettarono il fatto compiuto e domandarono un nuovo guardiano del regno per combattere i castigliani e gli aragonesi. Eustache de Beaumarchais prima e poi Imbert de Baujeu e Robert d'Artois (fratello della regina Bianca) ristabilirono la situazione, in modo che nel 1277 En Peire di Aragona rinunciava definitivamente alle sue pretese sulla Navarra. Per un quadro d'insieme, vedi R. FAWTIER, Histoire du Moyen Age. t. VI. L'Europe Occidentale de 1270 à 1380, 1ere Partie.De 1270 à 1328, Presses Univ.  de France, 1940, pp. 266-268; e H. D' ARBOIS DE JUBAINVILLE, Histoire des ducs et des comtes de Champagne, t. IV (1181-1285), Paris, Durand, 1865, pp. 440-456. La narrazione degli avvenimenti basta senz'altro a rigettare l'ipotesi avanzata, priva com'è d'ogni relazione col testo poetico.

20. Non a caso si cita questo episodio. Infatti C. MICHÄELIS DE VASCONCELLOS, Cancioneiro da Ajuda, ediçâo critica e commentada, vol. II, Halle, M. Niemeyer, 1904, pag. 440, nota 2, scrive: «Pode ser que nas allusôes dos tres sirventes bellicos, compostes nas côrtes peninsulares, se escondam referencia á conquista do Algarve, um dos capitulos mais obscuros de historia portuguesa, come já indiquei». Nel 1252 Alfonso X rivendicò il regno d'Algarve per le conquiste fatte insieme al re Sancho di Portogallo contro i Mori in Andalusia. Ma al principio del 1253 Innocenzo IV avocò alla S. Sede la questione contesa; il 20 aprile il re di Castiglia inviò i suoi ambasciatori ad Alfonso III di Portogallo; il 3 giugno a Guimaraes l'accordo fu raggiunto col progetto di matrimonio di Beatrice, figlia naturale di Alfonso, col figlio ed erede del re di Portogallo, il quale donò al figlio la provincia e l'usufrutto di essa al re castigliano per tutta la sua vita. Mentre così il contrasto armato veniva a spegnersi, ancora un tentativo di intervento politico di Alfonso (nomina di D. Fr. Roberto a vescovo di Silves non approvata dal vescovo di Lisbona alla fine del 1253) venne definitivamente frustrato dal voto unanime della curia regia a Lisbona nel gennaio del 1254. Vedi ANTONIO BRANDÂO, Monarchia lusitana, quarta parteda, Lisboa, 1632, pag. 194 e sgg. e JOAO BAPTISTA DE SILVA LOPES, Memorias para a historia ecclesiastica do bispado do Algarve, Academia Real das Sciencias, Lisboa, 1848, pp. 142-160; e C. SÁNCHEZ-ALBORNOZ MENDUIÑA, Lacuria regia portuguesa. Siglos XII y XIII, Madrid, 1920; pp. 82-87 e pag. 167.

21. H. D'ARBOIS DE JUBAINVILLE, Histoire des ducs et des comtes de Champagne, op. cit., t. IV, pag. 349, nota.

22. Tomo tercero de los Anales de Navarra, obra posthuma y ultima del p. J. DE MORET, en Pamplona, 1704, pag. 66, col. I. Le relazioni tra i due reami erano molto stretti e risalivano, come si sa, a molto tempo prima. Giacomo d'Aragona salì sul trono il 1213; egli era stato adottato da Sancho VII di Navarra nel 1231 ed era stato concorrente sfortunato di Tibaldo IV nel 1234. La rivalità s'era però spenta col tempo, sostituita da una feconda amicizia.

23. E' questa una delle pagine più oscure della storia della penisola iberica in questo periodo; nè sarebbe qui il caso di affrontare l'argomento, se esso non avesse un qualche riferimento col nostro canzoniere. La Crónica, che tace del tutto i fatti della Guascogna, Navarra ed Aragona, narra che nell'anno 1253 Alfonso X, non avendo avuto figli da Violante d'Aragona, chiese in sposa Cristina,

infante di Norvegia, con l'intenzione di ripudiare la legittima moglie. La principessa arrivò, quando Violante aveva dato alla luce l'infante Berenguela al principio del 1254; dopo dieci mesi nasceva anche Ferdinando, erede al trono di Castiglia. Allora Alfonso maritò Cristina col fratello Filippo, vescovo eletto di Siviglia; vedi Crónica del rey don Alfonso décimo, por C. ROSSEL, Madrid, M. Rivadeneyra, 1875, pag. 4 e sg. (per i precedenti del matrimonio del re, vedi JOFRÉ DE LOAISA, Chronique des rois de Castille (1248-1305), publiée par. A. MOREL-FATIO, Paris, 1898, estr. della «Bibliothèque de l'Ecole des Chartes», LIX, 1898, pag. 13). La narrazione, pur trovando credito in numerosi storici antichi e recenti (dagli Analesdel De Moret fino all'Histoire du Moyen Age del Fawtier) è sostanzialmente smentita dal MONDEJAR, Memorias historicas del rei D. Alonso el Sabio, i observaciones a su chronica, Madrid, 1777, pag. 99, che fissa la data di nascita della primogenita Berenguela nel 1253. Invece nel novembre o ai primi di dicembre del 1254 nacque un'altra figlia, Beatrice, che compare in un privilegio di Alfonso del 26 dicembre a Burgos (poi moglie di Guglielmo di Monferrato); infine Fernando nacque il 23 ottobre 1255. Inoltre la cronaca minuziosa del nobile islandese Sturlam Thorderi (nella sua Historia Haquini IV regis Norvegiae) precisa che l'ambasceria d'Alfonso arrivò in Norvegia nell'inverno del 1257 e narra il viaggio di Cristina e il suo arrivo in Castiglia, il 22 dic. 1257, il suo fidanzamento, il 6 febbr. 1258, e il suo matrimonio, il 31 marzo seguente; vedi J. P. DE GUZMÁN Y GALLO,La princesa Cristina de Noruega y el infante Don Felipe, hermano de Don Alfonso el Sabio, in «Boletín de la Real Academia de la Historia», t. LXXIV, 1919, pp. 39-65. Per non negare fede del tutto alla Crónica di Alfonso, il Ballesteros avanza l'ipotesi che la cosiddetta sterilità di Violante debba essere limitata alla mancanza di erede maschio e che il ripudio sia stato solo una minaccia, che Alfonso agitò come arma politica contro il suocero Giacomo d'Aragona (Itinerario cit., pag. 493, nota 1).

24. Come si vede, l'accordo seguì sollecitamente dopo appena una ventina di giorni dalla morte del re. Gli strumenti furono due; nel primo Alfonso prometteva, a nome del padre, « ... de seer vuestro amigo et amigo de vuestros amigos et enemigo de vuestros enemigos et de ajudar vos con todo son poder a deffender el regno et toda la seynoria de Navarra cuentra qui rey sea, o aya poder de rey, qui tuerto ni mal ninguno y quisiesse fazer ... »; nel secondo Margherita giurava per sè e per il figlio Tibaldo « …que seremos d'aqui adelant por todos tiempos amigos vuestros et amigos de todos vuestros amigos et enemigos de vuestros enemigos, et que vos ajudaremos con todo nuestro poder a deffender vos et toda vuestra seynoria contra qui quier qui rey sea, o aya poder de rey, qui tuerto nin mal ningun vos quisiesse fazer, sacado contra el rey de França et contra el emperador d'Alamaynna et contra las personas de França a qui nos somos tenidos per seynorio ...»; cfr. JEAN-AUGUSTE BRUTAILS, Documents des archives de la Chambre des Comptes de Navarre (1196-1384), Paris, E. Bouillon, 1890, pag. 17, nn. XVI-XVII (fasc. LXXXIV della «Bibliothèque de l'École des Hautes Études»); vedi inoltre J. YANGUAS Y MIRANDA, Historia compendiata del Reino de Navarra, San Sebastian, 1832, pag. 132 e sgg.

25. Ma le concessioni ebbero breve durata. Il 5 novembre 1257 Papa Alessandro IV lo liberò dai giuramenti e gli concesse il diritto di essere incoronato dall'arcivescovo di Reims, come i re di Francia; vedi H. D' ARBOIS DE JUBAINVILLE, op. cit., pag. 352.

26. H. D' ARBOIS DE JUBAINVILLE, ivi, pag. 342. Per il testo del trattato, vedi E. GONZÁLES HUBERTISE, Recull de DoçumentsInédits del Rey en Jaume I, in «Congrés d'Historia de la Corona d'Aragó», vol. II, Barcelona, 1913, pp. 1203-1206.

27. A. BALLESTEROS, Itinerariocit., pag. 470.

28. Il re tolse infatti al signore di Biscaglia le sue rendite per passarle a D. Nuño Gonzáles de Lara, nipote di D. Diego il Buono. Loup Diaz de Haro ruppe allora il suo giuramento di fedeltà e nell'agosto partecipò al convegno di Estella, nel quale si riconobbe suddito dell'Aragonese, in cambio di cinquecento caverias. Appena qualche mese dopo, il 4 ottobre 1254, egli però morì a Bañares de Rioja, lasciando al figlio quindicenne l'eredità della nuova alleanza, riconfermata nuovamente l'anno seguente il 6 di settembre 1255 ad Estella. Il Ballesteros, nell' Itinerario cit., pag. 159, parla diffusamente dell'influenza di questa ribellione sulla condotta di Enrico di Castiglia, fratello di Alfonso. Vedi LUIS DE SALAZAR Y CASTRO, Historia genealógica de la casa de Haro, vol. III della Biblioteca de historia vasca, Madrid, Vincente Rico, 1920; e ARISTIDES DE ARTIÑANO Y ZURICALDAY, El señorio de Bizcaya, histórico y foral, Barcelona, 1885, pag. 70; e soprattutto JEAN DE JAURGAIN, La Vasconie, étude historique et critique sur les origines du royame de Navarre, du duché de Gascogne, des comtés de Comminges, d'Aragon, de Foix, de Bigorre, d'Alava et de Biscaye, de la vicomté de Béarn et des grands fiefs du duché de Gascogne, Pau,1902, vol., II, pag, 264 e sgg.

29. Oltre gli Anales de Navarradi J. DE MORET, op. cit., pag. 77, col. I, vedi CH. DE TOURTOULON, Jacme Ier le Conquérant, IIe Partie (1238 à 1276), Montpellier, 1867, pag. 298 e sgg.

30. F. VALLS-TABERNER, Relacions familiars i politiques entre Jaume el Conqueridor i Anfós el Savi, in «Bolletin hispanique», t. XXI (1919), pag. 23 e sgg. Per le poche notizie su questo personaggio, vedi LLUIS NICOLAU Y D'OLWER, Jaume I y los trovadores provensals, in «Congrés d'Historia de la Corona d'Aragò», t. I, Barcelona, 1909, pag. 400 e sgg.; e J. MASSÓ TORRENTS, Repertori de l'Antiga Literatura Catalana, vol. I, Barcelona, 1932, pag. 167-8. E' menzionato da Cerverí de Girona, in BdT. 434, 13, Lo vers del comte de Rodés(n. 60 di MARTIN DE RIQUER, Obras completas del trovador Cerverí de Girona, Instituto Español de Estudios Mediterráneos, Barcelona, 1947, pp. 173-177).

31. Per intendere lo stato d'animo dei protagonisti, si legga il racconto del cronista Bernat Desclot: «Quant lo rey d'Aragó hac assò endressat, tramès misatges al rey de Castela, que él lo pregava, com a bon fil e cel que él amava molt, que no s'entramesés del fet de Navarra ne·y volgés entrar; que ben sabia que la terra e els enfans eren remàs en son poder. Per què li tornaria a gran desonor si no la defenia a tot hom qui entrar-hi volgués. Quan lo rey de Castela hac entès so que·ls misatges li agren dit, fo molt feló e tramès a dir al rey d'Aragó que la defensàs con mils pogés, que él hi entraria malgrat de tots aquels qui li o volgessen vedar. Quant lo rey d'Aragó hac entès so que·l rey de Castela li hac tramès a dir, fo molt irat e tramès per tota ça terra a tots los cavalers e a les gens de ciutats e de viles que vengessen ab lurs armes al pus tost que poguessen; sí que en poc de temps foren justats là hon lo rey era. E el. rey de Castela venc ab totes çes gens a mija legua prop de !es osts del rey d'Aragó, sí que·l rey d'Arago hac en cor que·s combatés ab él, ja fos cosa que avia meys de gent la meytat que·l rey de Castela, mas avia tan bona cavaleria e tan bona gent d'armes de Catalunya e d'Aragó que si fossen més .III. tans que no eren, sì li era semblant que tots los degués desbaratar e gitar de camp. Mas los bisbes, e els prelats e els hòmens d'orda anaven de la .I. rey a altre, e parlaven posa e vedaven aytant com pudien que la batala no·s faés. E entre·ls altres avia-hi .I. ric hom molt savi e cert e era de Cataluya, e avia nom En Bernat Vidal de Bosoldó e anava ab lo rey de Castela... E axí aquest ric hom, En Bernat Vidal, trabalà tant e parlà ab amdosos los regs, que quant venc .I. jorn que nuyl hom no·n sabé res, cascú dels reys venc, si altre a cavayl, en la mijania d'amdues les hostes, e aquí éls s'encontraren, e abrassaren-se, e besaren-se en la boca, e ploraren amdós molt fort e demanaren-se perdó la .I. al altre; e al rey de Castela humilià's al rey d'Aragó molt fort, e pregà-lo que·s n'anàs ab el a ça tenda e que menyàs ab él e vouria la reyna, ça fila, e sos néts. E el rey d'Aragó atorgà-li-o e anà-sse'n ab él... E puys cascú dels reys tornà-sse'n en ça terra ab ses hosts, e foren amicts axí com ja eren dabans»; vedi BERNAT DESCLOT, Crónica, a cura de M. Coll i Alentorn, Editorial Barcino, Barcelona, 1949-1951, vol. II, pp. 155-157. Due note sono necessarie: la prima d'ordine testuale e la seconda d'ordine storico. Credo che sia opportuno emendare il testo della Crónicae leggere in uno degli ultimi periodi citati: «e el rey de Castela humilià's al rey d' Aragó molt fort, e pregà-lo que·s n'anàs ab el a ça tenda e que manyàsab él e veuriala reyna, ça fila, e sos néts». Le correzioni proposte rendono chiaro il senso del passo e confermano il fatto che Violante d'Aragona in questo periodo era insieme col marito e non l'aveva abbandonato. In secondo luogo bisogna tener presente l'evidente appiattimento cronologico operato dal cronista, il quale evidentemente unifica in un solo episodio l'intera sequenza dei fatti riguardanti la crisi dei rapporti tra suocero e genero, dalla mediazione di Bernart Vidal de Besalù (1254) alla pace di Soria (l256). L'incontro narrato non poteva avvenire nell' autunno del '54 ed in esso Giacomo d'Aragona vedere sos néts, perchè a quel tempo era nata solo la prima di essi, Berenguela (1253), mentre l'altra, Beatrice, nacque nel novembre-dicembre del '54, e Fernando nel '55. L'incontro deve essere avvenuto probabilmente nel 1256; ma ciò non ne diminuisce l'interesse per la comprensione degli avvenimenti qui riesumati.

32. Vedi gli Anales de Navarradi I. DE MORET, op. cit. pag. 83, col. II, che sono fondamentali per l'intera questione e la citata opera di H. D'ARBOIS DE JUBAINVILLE, Histoire des ducsecc., vol. IV. Una revisione delle antiche posizioni è stata fatta dal Ballesteros nell'Itinerario cit. Ancora utile resta l'opera del DE TOURTOULON, Jacme 1erle Conquérant, già cit. Per una visione d'insieme, poco impegnativa per altro, della personalità del re di Castiglia, vedi J. SANCHEZ PEREZ, Alfonso X, el Sabio, M. Aguilar, Madrid, 1944, e per i nostri avvenimenti, pp. 54-56; e P. BERNADOU, Alphonse le Savant, Ed. Suzerenne, Genève, 1949, pag. 54 e sgg.

33. La ribellione di Enrico è da ricollegare direttamente con la condotta di Diego Lopez de Haro, col quale s'incontrò alla fine del 1254 o al principio del 1255. In seguito egli si recò presso Giacomo d'Aragona a Maluenda e rafforzò l'intesa con un progetto di matrimonio con Costanza d'Aragona, sorella di Violante, regina di Castiglia. Solo il tempestivo intervento di quest'ultima presso il padre a Calatayud riuscì a scongiurare la pericolosa unione. Vedi A. BALLESTEROS, Sevilla en el sigloXIII, Madrid, J. Péres Torres, 1913, pag. 57 e sg. (e per altro interesse l'AppendiceK a pag. CCCXI) e A. BALLESTEROS-BERRETTA, Itinerario de Alfonso X, rey de Castilla, in «Boletín de la Acad. de la Hist.», vol CV(1934), pag. 159.

34. «Ma troppo mi sembra addormentato -ciò mi dispiace-, sicchè vedo i suoi scoraggiati e meno intraprendenti; e se ora, mentre è nuova l'impresa, non incoraggia i suoi, gliene può venire una tal perdita (di prestigio) e un tal danno, che egli farà molto, se lo restaurerà in dieci anni».

35. Molto interessante, oltre a quello che appresso si dirà, è il componimento VIII rivolto da Bonifacio ad Alfonso X, particolarmente per i vv. 25-29; E sitot es l'arbres longnatz, -per que·il fo l'amars saboros,- del sieu digne frug glorios -no·s laisset tant e tal, c'assatz- pot del mescab restaur aver, «E sebbene si sia allontanato l'albero, per cui gli fu dolce l'amaro, dal suo degno frutto glorioso non si distaccò punto nè poco, poichè può avere della perdita buona rivalsa». Per me non vi è dubbio che qui il poeta alluda al tentativo o alla minaccia di divorzio del re dalla moglie, secondo la tradizione della Cronica, cui sopra, s'è accennato (vedi n. 23). Sotto il velo dell'immagine dell'albero, il poeta si riferisce probabilmente a Violante d'Aragona, allontanatasi dal marito (e rifugiatasipresso il padre?) a causa del suo aperto proposito di ripudio; il «degno frutto glorioso» non può essere che Ferdinando, l'erede al trono, la cui nascita salvò l'integrità del matrimonio dei genitori. In tal modo il trovatore esorterebbe qui il re ad avvicinarsi alla moglie (che allontanandosi aveva reso piacevole la spiacevole decisione), e soprattutto al figlio, che lo ripagherà di ogni rinuncia; conseguentemente la canzone deve essere posteriore alla nascita del primogenito, avvenuta, come s'è detto, il 23 ottobre del 1255. Questa interpretazione fa finalmente giustizia di tutto il losco ed equivoco sottinteso che è stato dato al componimento, e quindi anche alle relazioni tra Bonifacio ed Alfonso di Castiglia, dal Millot sino al Pelaez e a Carolina Michaëlis de Vasconcellos. Se invece bisogna riferire l'episodio ad una delle numerose avventure di Alfonso, allora ogni determinazione è veramente impossibile; vedi l'importante studio di E. LÓPEZ-AYDILLO, Los cancioneros gallego-portugueses como fuentas historicas, in «Revue hispanique», vol. LVII (1923), pp. 373-432.

36. Tale principio unitario è il fondamento della presente ricostruzione, la quale perciò si propone come interpretazione del motivo centrale del canzoniere. Essa cioè prescinde dalla valutazione di accenni secondari, che sono al di fuori del quadro principale. Si vuole alludere qui alla tenzone del Calvo con lo Scotti (testo XIX), dove ai vv. 57-64 il nostro trovatore dice: Scotz, pos ma domna m'autreia - q'ieu parl'ab leis e domneg, - e q'ieu la remir e veia, - sembla·m qe trop ben espleg; - e qar non tain q'esser deia - pros domna d'avol autreg, -no·m pren del iazer enveia, - q'ieu am mais, q'eu non enveg, «Scotto, poi che la mia donna mi concede di parlarle e di ammirarla e di vederla e di rimirarla, mi sembra che io ottenga moltissimo; e poichè non conviene che una nobile donna debba comportarsi sconvenientemente, non desidero di possederla, dal momento che l'amo più che non la desideri».  Probabilmente questi versi si riferiscono ad un amore genovese del Calvo; comunque essi per il loro scarso sviluppo non rappresentano un dato rilevante della biografia intima del poeta, quale si presenta nel canzoniere. D'altra parte quanto sia accessorio ed occasionale sovente lo sviluppo tematico delle tenzoni è esplicitamente dichiarato altrove, XVIII, 61-64: Mantenen tort e zo don non ai cura, - vos ai vencut,Luchetz; don suiioios, - car ai mostrat qu'eu sai tan plus de vos, - c'ab tort conten miels qe vos ab drechura, «Luchetto, sostenendo il torto e ciò, a cui non credo, vi ho vinto; e per ciò son contento, perchè vi ho mostrato che io so tanto più di voi, che col torto tenzono meglio di voi con la parte giusta».

37. «Amore mi fa amare una donna tanto nobile, che è così. bella e valente, che non sono degno di desiderare il suo amore; nè la ragione concede –tanto mi supera!- che le piaccia che io l'ami, o che mi offra per suo devoto».

38. «Perciò d'altra cosa non mi curo che di fare il vostro piacere e vi prego che vogliate guardare al mio contegno e non già al lignaggio, perchè ciò temo, che voi mi superiate in questo; onde più fortemente incoraggiatemi con il vostro discreto comportamento».

39. « ...poichè, a mio parere, ho messo il mio desiderio in troppo alto luogo».

40. « ... che non possa farmi onore così nobilmente come si conviene alla mia alta intenzione». Si sono tralasciate, di proposito, altre citazioni meno impegnative, come, per es., il cor seingnorildi I, II, per non forzare in qualche modo la genericità del testo.

41. «Vai a dire, o nuovo sirventese, a colei che amo più di me stesso, che il bene, che mi concede, è d'incoraggiamento per tutti gli uomini valenti e di rimprovero ai vili».

42. «Poichè Alfonso, re di Castiglia, vale più che si possa pensare, sono suo fedele, poiché il suo «valore» mi protegge, se vi sarà qualcuno che sembra troppo orgoglioso; e se gli piace che mi sollevi e mi innalzi, non voglio chiedere protezione altrove, poiché col suo «valore» oserò dire donde mi viene l'affano che ho»

43. Tutti i biografi parlano sulla traccia del Nostredame, d'una nipote di Alfoso X (e non di Ferdinando, com'egli dice), senza riuscire a dare ad essa una più definita personalità storica. In verità l'albero genealogico della casa di Castiglia, particolarmente tra Ferdinando III il Santo ed Alfonso X il Savio, è intricatissimo; d'altra parte le scarsissime notizie dei suoi esponenti meno prossimi non porterebbero un grande contributo alla chiarificazione del problema. Vedi HENRIQUE FLOREZ, Memorias de las reynas catholicas. Historia Genealogica de la Casa Real de Castilla, y de Leon, en Madrid, por A. Marin, 1761, t. II, pag. 500 e sgg. e il succinto quadro di A. SANCHEZ PEREZ, nell'op. cit., pag. 20 e sgg. Il tentativo più serio, per quanto poco fruttuoso, è stato effettuato da C. Michaëlis de Vasconcellos, Cancioneiro da Ajuda, op. cit., vol. II, pag. 443 (secondo la quale potrebbe trattarsi o d'una nipote di Ferdinando, figlia dell'infante Alfonso di Molina, ovvero d'una figlia illegittima del primogenito di Fernando e di P. Maria Alfonso).

44. «Ma non le pare che io sia sottomesso come soleva, poichè non vado verso il suo paese, come le promisi; e per questo mi colma di dolore, quanto più le sono fedele amante. (IV) Già da lei non mi vado allontanando, se mi ingegno or qui in Spagna in maniera che mi porti sempre più in alto, elevando il mio merito tanto, che il suo splendido pregio non abbia a soffrirne o a diminuirsi, quando essa faccia un gesto piccolo o grande, che si pieghi verso di me». Sulla tradizione di questo «genere» poetico, vedi H. R. LANG, The Descort in Old Portuguese and Spanish Poetry, in Beiträge zur romanischen Philologie. Festgabe für Gustav Gröber, Halle, M. Niemeyer, 1899, pag. 495.

45. «Amore mi fa tanto amare la mia donna, che sono giudicato pazzo, poichè, quando dovrei sforzarmi di cessare di servire il re, gli faccio cosa grata; e non me ne astengo affatto, poichè so che ella me ne dovrebbe rendere buon merito, se le piacesse dare la sua ricompensa secondo giustizia».

46. «Poichè non gli piace la gente vile, nè la riceve, nè gli piace il cattivo, nè il superbo, nè il ricco avido, voglio essere da lui tratto fuori dal grave danno, che scoraggia i miei amici, ovvero gettare in non calere tutto ciò che mi può servire a guadagnare; perchè non credo che vi siano tre o due signori che con molto piacere e volentieri siano tanto gentili e tanto prodi, che giustamente sia onorato l'uomo di valore, che da loro fosse amato». Come si vede dal contesto, e dall'interpretazione proposta di questo canto d'amore, sulla linea di una visione unitaria del canzoniere, il senso dato al senhal di Ardit, come quello d'un signore (a noi rimasto sconosciuto), presso il quale il poeta spera di trovare più generosa ospitalità, s'allontana notevolmente sia dall'ipotesi del Pelaez, secondo la quale qui è sottintesa la persona della donna, sia dalla proposta del Levy (in «Literaturblatt f. germ. u. rom. Philol.», vol. XIX, 1898, col. 28 e sg.), che vi vede un'allusione ad Alfonso X. Lo stesso senhal, con un significato non dissimile del nostro, secondo

l'ultimo editore, compare nel canzoniere di Guilhem Peire de Cazals, che visse intorno al primo terzo del XIII secolo. Per l'interessante accostamento delle due formule e per tutta la relativa bibliografia, vedi Guilhem Peire de Cazals, troubadour du XIIIe siècle, éd. crit. et trad. par J. MOUZAT, Paris, Soc. d'Ed. «Les belles Lettres», 1954, pag. 18 e sgg.

47. «Chiunque supplica fortemente e si dà a gran signore privo di valore, in nessun modo l'amo e lo cerco, perchè colui a cui manca tutto ciò che a me piace, non mi potrebbe dare affidamento, di cui io fossi appagato».

48. J. BOUTIÈRE - A. H. SCHUTZ, Biographies des troubadours, Toulouse - Paris, 1950, pag. 30.

49. Vedi B. PANVINI, Le biografie provenzali. Valore ed attendibilità, Firenze, Olschki, 1952, pag. 104, e G. FAVATI, Appunti per un'edizione critica delle biografie trovadoriche, in «Studi mediolatini e volgari», vol. I (1953), pp. 70-73.

50. La cronique des Veneciens de Maistre Martin Da Canal, per cura di FILIPPO LUIGI POLIDORI, in «Arch. Stor. It.», vol. VIII (1845), pag. 532 e sgg.

51. «In ipso vero anno Pescetus Mallonus qui cum quibusdam eius sociis cursum intraverat contra inimicos Venetos cum duabus galeis, in partibus Citri invenit quamdam galeam de Portu Veneris cum quadam sagitea, que in cursum erant contra inimicos predictos; et facta conserva et dicto Pesceto admirato ordinato dictarum trium galearum et dicte sagitee, quadam die de mense octubris invenerunt quamdam navem Venetorem magnam et divitem ultra modum, in qua erant circa homines .CL. et in qua erant .XLV. vel ultra de bonis et magnis hominibus Venetiarum. quam navem prelio incepto viriliter expugnarunt, et ipsam devicerunt, in qua centum octo retinuerunt captivos, in his computatis .XLII. de melioribus Venetiarum, residuo vero dictorum hominum Venetorum mortuo ad prelium in expugnatione dicte navis. cum qua nave de mense novembris ad Portum Veneris accesserunt; et ibi nave dimissa, cum mercaturis et galeis et captivis de mense novembri Ianuam venerunt cum victoria predicta. qui Pescetus cum eius societate receptus fuit cum gaudio et triumpho, et comuni .CXXX. captivos numero consignavit. in captione dicte navis dampnificavit inimicos sive Venetos, non computato damno personarum captivorum, in libris .XL. milia ianuinorum et ultra»; cfr. Annali Genovesi di Caffaroecc., op. cit., vol. IV, pag. 93. Vedi inoltre C. DESIMONI, IlMarchese Bonifacio di Monferrato e i trovatori provenzali alla corte di lui, in «Giorn. ligust. di arch., stor. e belle arti», vol. V (1878), pag. 254; A. FERRETTO, Codice diplomatico delle relazioni fra la Liguria, la Toscana e la Lunigiana ai tempi di Dante (1265-1321). Parte I. Dal 1265 al 1274, in «Atti della Soc. Lig. Stor. Patr.», vol. XXXI (1901), pag. 46; e soprattutto G. CARO, Genua und die Mächte am Mittelmeer 1257-1311, Halle, M. Niemeyer, 1895, vol. I, pag. 191 e seg.

52. Cap. CCLXXXVI della Cronique cit., pag. 630. Che questi fossero gli unici prigionieri veneziani, catturati in mare, rimasti a Genova, è ribadito dalla stessa cronaca più avanti, quando, parlando della pace conclusa, solo di essi reca testimonianza: «Venesiens avoient en prison mains homes de Iene, que il avoient pris en bataille de mer, ensi con nos vos avons conte sa en ariere en notre conte; et Ienoes avoient en prison maint Venesiens, que il avoient pris en une nef que aloit a marche; et de tes en i avoit en prison, que il troverent en Romanie, que aloient au marche»(pag. 662).

53. Nessun accenno, tra l'altro, è nei due testi dei vari tentativi di tregua che furono rinnovati nell'anno seguente, 1267, ed anche dopo, ad opera del Papa e che caddero sempre nel nulla per volontà dei genovesi; vedi R. CESSI, La tregua fra Venezia e Genova nella seconda metà del secolo XIII, in «Archivio Veneto-Tridentino», vol. IV (1923), pag. 1 e sgg. Su questa datazione il giudizio degli studiosi è ormai unanime (salvo il LEVY, Der Troubadour Bartolome Zorzi, Halle, 1883, pag. 6, che pone la cattura dello Zorzi nel 1263); cfr. G. BERTONI, I trovatori d'Italia, Modena, Orlandini, 1915 pag. 116 e V. DE BARTHOLOMAEIS, Poesie Provenzali Storiche relative all'Italia, Roma, 1931, vol. II, pag. 241 e F. A. UGOLINI, La poesia provenzale e l'Italia, Soc. Tip. Mod., Modena, 1939, pag. XLVI. Per un quadro di insieme delle condizioni culturali di Venezia, vedi A. MONTEVERDI, Lingua e letteratura a Venezia nel secolo di Marco Polo, in «Lettere italiane», a. VI (1954), pag, 141 e sgg.

54. Per la minuziosa conoscenza di questo periodo 1261-1266, vedi gli Annali di Caffaro cit., vol. IV, pp. 41-94.

55. « E chi vi vince ora, non si pensi che egli ne tragga lode e buon merito ... ».

56. «... e come ora (essi, i Veneziani) hanno vinto i Genovesi».

57. Già nel 1263 si manifestarono i primi segni di sfiducia del Paleologo: «Eodem anno galee .XXV. que armate fuerant tempore domini Gucii, applicuerunt Romaniam et cum tam aliequam iste essent in ipsis partibus Romanie, propter multitudinem armiragiorum et propter alia inconvenientia que gerebant, idem imperator post multos et varios tractatus habitos cum eisdem, nec cum eo poterant vel ipse cum eis concordari; idem imperator exercitum predictum galearum que erant numero .LV. vel circa, licenciavit eas, et ad propria reddire precepit, et reddierunt ipse galee in portu Ianue anno preterito et sequenti»; Annali Genovesicit., vol. IV, pag. 52, e la pittoresca descrizione de La cronique des Venecienscit., cap. CLXXXVI. Come s'è detto, l'anno seguente, il genovese Guglielmo Guercio fu accusato dall'imperatore di tramare il tradimento a favore della parte latina e la sua confessione fu trascritta, «quod fecit dictus imperator volens comunis Ianue amiciciam retinere, quasi dictos Ianuenses de dicta civitate merito expullisset» (ivi, pag. 65); di conseguenza i genovesi furono espulsi da Costantinopoli e confinati nell'isola di Eraclea sul Mar di Marmara. Poi l'imperatore mandò Enrico Trivigiano a Venezia per trattare segretamente (tot priveement) la pace; e il doge gli inviò come ambasciatore Benedetto Grillone. Questi tornò a Venezia con le sue proposte, alle quali seguirono le controproposte inviate con Iacopo Delfino e Iacopo Cantarino. Essi condussero avanti i negoziati; ma il trattato già stilato (18 giugno 1265) non fu ratificato dal doge. Infine, quando Rainieri Zeno seppe che il tentativo dell'imperatore latino di trovare aiuti in Occidente era fallito, inviò Marco Bembo e Piero Zeno a Costantinopoli, e finalmente fu giurata una tregua di cinque anni (cap. CCLV della cronaca veneziana). Vedi G. L. F. TAFEL - G. M. THOMAS, Friedens-und Handelsvertrag des Griechischen Kaisers Michael Palaeologus mit der Republik Venedig vom Jahre 1265, herausgegeben von der königlich-bayerischen Akademie zu München, 1850, pag. 37 e sgg.; e C. MANFRONI, Le relazioni fra Genova, l'impero bizantino e i Turchi, in «Atti della Soc. Lig. di Stor. Patr.», vol. XXVIII (1898), pp. 658-670.

58. La reazione della curia romana fu immediata. Urbano IV, eletto nell'agosto del 1261, nello stesso anno minacciava scomunica ed interdizione ai genovesi; ancora nel 1263 il medesimo papa con l'ambasceria di Prospero di Reggio, arcivescovo di Torres, rinnovava le sue pressioni; ed infine l'ambasciata dell'aprile del 1266 di sei nobili genovesi (tra cui Luchetto Gattilusio) cercava di riprendere più serene relazioni con la corte di Clemente IV e presso il re Carlo d'Angiò; vedi gli Annali di Caffaro, op. cit., vol. IV, rispettivamente a pag. 44, 50-55 e 88.

59. «Non m'importa molto che io nonsia stimato nè tenuto in considerazioneda questa cattiva gente genovese, nè mi piace molto la sua amicizia, poichè non vi si trova alcuno a cui piaccia il valore ...».

60. Dagli stessi componimenti nulla si può trarre in tal senso. Del primo poeta poco o nulla si sa: solo una testimonianza di lui in un atto del 25 settembre 1239, fatta conoscere da Fr. LUIGI MANNUCCI, Di Lanfranco Cicala e della scuola trovadorica genovese (con ragguagli biografici e documenti inediti), in «Giorn. stor. e lett. della Liguria», vol. VII (1906), pag. 18, nota; cfr. G. BERTONI, I trov. d'lt., op. cit., pag. 106. Del Gattilusio, al contrario, si conosce tutta la fortunata carriera politica, iniziatasi proprio in questo periodo di tempo, con la sua ambasceria sopra menzionata, presso Clemente IV e Carlo d'Angiò nel 1266. Da questa data in poi il suo nome ricorre spesso a Genova ed in altre città sempre legato ad importanti incarichi o funzioni. Lo scambio delle rime col Calvo è probabilmente da collocarsi anteriormente all'inizio della sua vita pubblica. Per la sua biografia, vedi la vasta bibliografia citata dal Bertoni, nell'op. cit., pag, 110 e ,sg,

61. Vedi traduzione alla nota 41.

62. Tale è la misura e il limite della presente ricerca. Ed è naturale che essa s'allontani consapevolmente dallo schema tradizionale d'una interpretazione di tono positivistico. Del resto chi volesse conoscere i risultati raggiunti da questa critica, avrebbe sempre da leggere le chiare pagine del Pelaez, nel saggio introduttivo del vol. XXVIII del G. S. L. I., nel quale, dopo aver separato le «poesie morali» dalle altre, egli così parla delle amorose: «Ma esaminiamo le poesie: del Calvo e vediamo quali notizie ci offrono intorno agli amori suoi. Leggendole si capisce a bella prima che non sono dirette ad una sola donna (cfr. DIEZ,Leben und Werke, pag. 482). Alcune (I, II, IV) si riferiscono ad un amore non corrisposto e all'improvviso troncato dal poeta stesso, il quale ci dà notizia di ciò con un sirventese (IV), dove è trasfuso tutto lo sdegno dell'animo suo contro la donna che non aveva saputo apprezzare il suo affetto. In queste tre poesie, per quanto ricorrano spesso i soliti motivi, svolti generalmente nei canti trovadorici, tuttavia non manca quà e là qualche tratto veramente poetico e che sembra rispecchiare sentimenti propri del rimatore» (pag. 24). Ancora: «Un altro gruppo (V, VI) di poesie si riferisce ad un amore per una donna di nobile stirpe, qualità per la quale teme, il poeta che il suo affetto non possa mai essere ricambiato» (ibid.). E poi: «Al medesimo amore potrebbero riferirsi le due poesie XI e XVI; ma sono entrambe così oscure che riesce molto difficile intenderle» (ivi, pag. 26). Poichè la diversità di intendere nasce da una impostazione fondamentalmente diversa del problema, ho stimato inutile contrapporre a queste affermazioni, ora e nelle pagine che seguono, delle affermazioni contrarie: dalla distinzione iniziale di poesie «amorose» e poesie «morali» alla enumerazione degli «amori» del poeta.

63. «Ora, quando vedo gelati i fiumi e il freddo è sì intenso e forte che brucia e fende, secca e spezza, io canto molto meglio che in aprile, poichè contro l'amore, che m'arde tutto, mi soccorre il tempo che mi raffredda, per cui non mi pesa tanto il fuoco».

64. «E tanto è irresistibile per me la sua potenza, che mi sembra che mi rompa e mi penetri dentro, per cui or subito la mia forza s'estingue, se Amore non mi soccorre... ».

65. «... poichè m'ha conquistato il vostro affabile contegno e la vostra gentile persona piacente, di cui sono innamorato con amoroso affetto».

66. «... onde più fortemente incoraggiatemi con il vostro discreto comportamento».

67. «Molto profondo fu il desiderio che s'impadronì del mio cuore, quando la vidi ridere con i suoi occhi e pensare con molti sospiri, trasalendo con più di mille colori: donde mi venne al cuore un dolce dolore, che mi fa dolere senza avere del male».

68. «Non vi è ricchezza, nè avere per il quale io cambierei il mio martirio e la mia tristezza -tanto forte mi piace!-, poichè così tra due desideri me ne sto con riso e con pianto, con tormento e con dolcezza: così penso di languire soavemente tanto, ch'ella si degni ascoltare le mie preghiere».

69. «Ma ben credo che troppo m'ha fatto indietreggiare il suo fino pregio perfetto, perchè mi fa appagare tanto del mio tormento, che non ho speranza che vi sia un bene che valga la mia tortura...».

70. A questo gruppo appartengono indubbiamente i due componimenti gallego-portoghesi del Calvo: Mui gran poder a sobre min Amor e Ora non moiro, nen vivo, nen sei. Non è necessario supporre che il nostro trovatore sia stato in Portogallo, come pensa il Lang (Cancioneiro de D. Denis, pag. XXXIV), essendo stata la corte di Alfonso X aperta agli influssi più vivi della cultura contemporanea. Vedi, oltre agli art. di H. R. LANG, The Relations of the Earliest Portuguese Lyric School with the Troubadours and Trouvères, in «Modem Language Notes», vol. X (1895), col. 207-231, e di A. JEANROY, Les troubadours en Espagne, in «Annals du Midi», vol. XXVII-XXVIII (1915-1916), pp. 141-175, soprattutto il recente studio, corredato da ampia informazione bibliografica, di I. FRANK, Les troubadours et le Portugal, in Melanges d'Etudes Portugaises offerts à M. Georges Le Gentil, Chartres, 1949, pp. 199-226; di scarsa importanza l'art. di E. DI POPPA, Lapoesia trovadorica in Portogallo,in «Convivium», a 1952, pp. 852-860. Per uno sguardo d'insieme sull'attività umanistica multiforme del re di Castiglia, interessantissima in se stessa e per l'ambiente da cui fu animata e che a sua volta animò, vedi il rapido profilo di EVELYN S. PROCTER, Alfonso X  of Castile, Patron of Literature and Learning, Oxford, Clarendon Press, 1951.

71. A questa interna disposizione obbedisce l'«ordinamento»proposto, che, in mancanza d'ogni altro riferimento, è l'unico ad avere una sua logica. Riassumendo quanto s'è detto precedentemente, queste prime poesie del Calvo si possono raggruppare in tal modo: I). Canti dell'innamoramento: 1, Er quan vei glassatz los rius. 2, Finz e lejals mi sui mes. 3, Temps e luecs a mossabers.4, Tant auta dompna·m fai amar (e i due canti gallego-portoghesi). II). Canti di guerra: 5,Mout a que sovinenza. 6, En luec de verianz floritz. 7,Un nou sirventes ses tardar. E' superfluo avvertire che, salvo per le canzoni storico-politiche; l'interno d'ogni gruppo, riflettendo la dinamica di diversi stati d'animo, dà solo l'ambiente per un ordine approssimativo.

72. «Ma se ella sapesse come le sono sincero e leale senza cuore mutevole, non credo che sopporterebbe che così languisca un amante sincero e supplichevole. Ma non le pare che io sia a lei sottomesso come solevo, poichè non vado verso il suo paese, come le promisi: e per questo, mi colma di dolore, quanto più le sono fedele amante». 

73. «Già da lei non mi vado allontanando, se m'ingegno or qui in Spagna in maniera che mi porti sempre più in alto, elevando il mio merito tanto, che il suo splendido pregio non abbia a soffrire o a diminuirsi, quando essa faccia un gesto grande o piccolo, che si pieghi verso di me; poichè, secondo il dovere dell' amante, la vado preservando da ogni danno, in tutto ciò che si conviene ed è necessario».

74. A questa vigilia di trebail e alla trista animosità degli invidiosi, il poeta accenna fugacemente nella quinta strofe del n. VIII, di cui s'è parlato precedentemente (vedi nota 23 e 35). In essa è detto: E s'en fol no·m sui trebaillatz – ben me·n venra tals guiardos, - que·n seran trist e consiros - cil per qu'eu sui sems e mermatz - del gran deport e del plazer - qu'eu soil aver lo iorn e·l ser - dels mieus mestiers, don ai do lor coral, - e maint autre que no i podon far al. «E se io non invano mi sono affaticato, ben me ne verrà una tale ricompensa, che ne saranno tristi e crucciati quelli a causa dei quali son privo e mancante del gran piacere e soddisfazione che io solevo avere delle mie azioni il giorno e la notte (per questo ho dolore profondo), e molti altri che non vi possono far altro». Veramente preparano questi versi l'andamento della canzone seguente e richiamano la necessità d'intendere la poesia del trovatore nella sua costante individuale intimità.
 

75. «Per tutto ciò, per cui si suole «valere» ed essere lodati, si è biasimati ed incolpati, poichè ora è follia la prodezza ed ingenuità la lealtà e leggerezza la gioia così è cambiato il valore in viltà e questa in quello, per cui si tiene per prode il dappoco e il prode non vale niente».

76. «Anzi voglio secondo tale desiderio una posizione assai più modesta…».

77. «E so che darò l'impressione con i miei versi chiusi che mi lodo come un uomo superbo; non del tutto, perchè, se facessi ciò, il verso avrebbe aspetto menzognero e per tale varrebbe. Ma, sebbene non mi manchi la possibilità di farlo facilmente, non mi ricordo e sovvengo di cantare se non per quelli che intendono la ragione del canto».

78. La posizione dei cosiddetti canti «morali» ha perciò ben altro significato da quello indicato dal Pelaez, pag. 17: «Le poesie morali svolgono un argomento comune alle liriche provenzali di quel tempo: il mondo va male, perchè non sono più stimati valore e cortesia, e gli uomini vili sono ben accolti, lodati e onorati dai signori»; e pag. 20: «Tutte e cinque (egli qualifica «morali» i testi corrispondenti ai nostri nn. VIII, X, XI, XII, XIII) appaiono scritte sul medesimo motivo e ispirate da cause affini, soprattutto dall'invidia dei cortigiani; e riflettono, per così dire, un lato della vita del nostro poeta in quella corte… Le poesia già esaminate sono dunque come lo sfogo del Calvo, il quale talora si vedeva preferiti quelli che non avevano alcun merito, e lanciava i suoi amari sirventesi contro i signori che hanno distrutto il pregio e onorano i malvagi, non senza fine ironia a danno d’Alfonso» (ibid.). Certo tutto ciò è vero; e tuttavia si rimane al di fuori di un intendimento sostanziale della poesia del trovatore, la quale, come tale, si pone su un piano diverso da quello documentario.

79. A questo gruppo, dunque, che s'è chiamato della «delusione» e della «lontananza», possono riportarsi i canti: 8, Enquer cab sai chanz e solatz. 9, Ai Dieus! S'a cor qe·m destreigna. 10, Per tot zo c'om sol valer. 11, Una gran desmezura vei caber. 12, Ab gran dreg son maint grant seingner del mon. 13, Qui ha talen de donar.

80. «Amore mi fa amare tanto la mia donna, che ne sono giudicato pazzo, poichè, quando dovrei sforzarmi di cessare di servire il re, gli faccio cosa grata; e non me ne astengo affatto, perchè so che ella me ne dovrebbe rendere buon merito, se le piacesse dare la sua ricompensa secondo giustizia».

81. «Il senno più grande che l'uomo possa avere in sè, è sapere fare che si realizzi il suo «valore».

82. «... onde io mi son condotto troppo pazzamente, perchè nell'amare colei, che non capiva come il mio amori le fosse d'onore o di lode, ho perduto tanto, che ora mi fa troppo dolere».

83. Vedi n. IX, 5-9: Vaus lieis c'ab pretz verai teignha, - non o sai: mais l'entreseinha m'esmaia, con que·s capteigna - de mi («se si comporta con vero pregio non so: ma l'atteggiamento, col quale agisce nei miei riguardi mi turba...»; e i vv. 87-90: e que, senz tota contenda, - de grat s'amistat no·m-renda - per acort e per emenda («... e che, senza alcuna esitazione, non mi restituisca la sua amicizia di buon grado in segno di pace e di riparazione»).

84. «E se io mai trascurai tanto il mio senno che Amore abbia potuto condurmi là dove non mi valesse amate sinceramente ed umilmente servire, ben me ne son punito. E se io come un pazzo sono stato maltrattato, non se ne inorgoglisca più colei che mi stimava poco, perchè col mio senno ritornerò presto altrove: per cui essa varrà meno dal momento che non mi seppe tenere per sè».

85. «E mai più farò secondo il suo volere, di credere a sguardi o a sembianti traditori, poichè è pazzo colui che si lascia guidare da un cuore pazzo. Ma quando il mio cuore sarà retto e sennato, allora vorrò essere guidato da lui. Però egli dovrebbe ben sapere qual frutto sa produrre la follia e la leggerezza e quale onore ne abbia chi le vuole seguire».

86. «Perciò ormai da lui spero buone azioni e voglio con lui chiedere soccorso ed aiuto ad Amore, chè senza Amore non saprei vivere gioioso, tanto mi piace la sua amicizia! Da Amore nasce il piacere, il canto e il gaudio, il vero «valore» e la perfetta «cortesia»: perciò si debbono considerare tra i più volgari coloro i quali si sforzano di mal comportarsi con Amore».

87. Il Pelaez nega la continuità interna di questo canto, quando afferma: «Alcune (poesie I, II, IV) si riferiscono ad un amore non corrisposto e all'improvviso troncato dal poeta stesso, il quale ci dà notizia di ciò con un sirventese (IV), dove è trasfuso tutto lo sdegno dell'animo suo contro la donna che non aveva saputo apprezzare il suo affetto» (ivi, pag. 24). Come s'è chiarito, non di una rottura si può parlare, bensì d'una evoluzione interiore del sentimento d'amore.

 

 

 

 

 

 

 

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